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Full text of "La tradizione greco-latina nei dialetti della Calabria citeriore"

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TRADIZIONE GRECO-LATINA 



NEI DIALETTI 



DELLA CALABRIA CITEEIOUE 



PER 



VINCENZO DORSA. 



— s|l»— 



Dalla Tipografia Migliaccio 

1876. 






TRADIZIONE GRECO-LATINA 



ITEI DIALETTI 



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PER 



VINCENZO BORSA 



COSENZA 

Dalla Tipografia Migliaccio 

1876. 



INTRODUZIONE 



§. 1. La estrema parte meridionale d' Italia, detta oggi 
Calabria, sin da tempo immemorabile fu abitata da popoli 
greci, riconosciuti sotto il nome di Enotri e Caoni. In tempi 
sussecutivi vi comparvero da una parte i Lucani, dal ceppo 
dei quali provennero dopo i Bruzi , e dall' altra le colonie 
cretesi, calcidiche, achee e doriche, onde la regione si disse 
Magna Grecia. Quando le armi romane se ne impadroni- 
rono, gli abitatori adunque erano divisi in Lucani, Bruzi e 
Greci. I Lucani e i Bruzi parlavano due lingue, la greca 
e la osca, detti perciò questi ultimi bilingui (oilingues Bru- 
tates); ma introdottasi col dominio romano anche la lingua 
de' neri vincitori^ essa vi s' impose, si estese, e a poco a 
poco prevalse su le antiche lingue dei vinti. Però nei primi 
secoli cristiani, e possiamo dire , sino al secolo Vili.® col 
termine della occupazione bizantina, la lingua come la vita 
delle genti calabresi rifletteasi tutta nel doppio elemento 
greco-latino per molta età loro connaturale. 

Avvenuta a traverso dei secoli medioevali la trasforma- 
zigne del linguaggio latino in una (quantità di dialetti, che 
poi si riunirono divisi ne' sei gruppi principali costituenti le 
cosi dette lingue romanze, anche la Calabria si risentì di 
questo lungo lavoro del tempo, e conservando sempre con 
le antiche tradizioni, quantunque indeboliti, i nobili avanzi 
del suo tipo originale, seguì nel resto la vita nuova dei pò- 



poli italici, ai 6[uali fu ed è unita per affinità di stirpe, di 
cielo, di lunghi ora splendidi ora dolorosi storici avvenimenti. 

§. 2. E queste memorie greco-latine ne' dialetti calabresi 
io mi sono prefisso di ricercare e mettere in luce col pre- 
sente mio studio. In altro scritto rileverò i costumi, le tra- 
dizioni e credenze popolari che han rapporto a quei tempi. 
Mi restringo però alla sola Calabria citeriore o cosentina, 
mancandomi la opportunità di estendere le mie ricerche alle 
altre due provincie sorelle. 

§. 3. M' incombe dichiarare che sebbene la Calabria di 
che ci occupiamo, sia una piccola regione, pure il linguag- 
gio che vi si parla dalla popolazione offrendo non poche 
importanti variazioni nei suoni e in una quantità di vocaboli 
da un tratto di paese ad un altro, non può essere riguar- 
dato come dialetto unico, ma diviso invece in più rami o 
gruppi di dialetti. A cagione di esempio, i suoni della ? o 
della ;^ gr. , della l palatale forte, della r rinforzati va di rf e 
di t (abbaddru per abbadduj ital. ballo, shcantru per shcantu, 
paura improvvisa), i suoni nasali, sono quasi esclusivi alla 
zona cosentina. Parimente nel Cosentino si ha il suono del 
doppio l j o l semplice accanto al doppio d o d semplice 
(nutlu e nuddUy luocu e duocu), mentre nel Castrovillarese 
e nel Paolano si sente solo il d sia doppio (nu^du), sia sem- 
plice ( duocu , dà per là}; e in questi ultimi ancora e nel 
Kossanese il suono del gruppo gli italiano, dominante nella 
parte meridionale della provincia, si è trasformato in quello 
del gruppo ahta, ghie, ghia, quale in ghia-ìa, ghio-iio (fi- 
ghiw ^ev figliu^ mughierd per mogliera). Sono segni di an- 
tiche divisioni di una stirpe e di una lingua istessa, che pure 
conviene rilevare. Il lettore troverà in ciò la ragione per- 
chè nel titolo di questo scritto io abbia accennato non a un 
solo dialetto, ma a più (1). 

§.4. Nel processo del lavoro, dovendo valutare la ori- 
gine di molte parole Calabre io mi atterrò al principio sta- 
bilito ormai dai più grandi autori di Linguistica (2), cioè che 
le parlate romanze siensi svolte ciascuna per vita propria,' 
senza la influenza dell' una sull' altra, essendo esse discese 
tutte in linea retta e contemporaneamente dalla gran ma- 
dre. Ciò che si dice delle sei lingue principali va certamente 
esteso a ciascuno degli altri dialetti parziali, che formano 
la parlata caratteristica e tradizionale di ciascun tratto dei 



(1) Non SODO incluse in questo numerole parlate di Guardia Piemontese di 
origine valdese nel Paolano, e delle colonie albanesi sparse in 28 villaggi 
e di oltre 40-,000 abitanti negli altri tre circondarii della Provincia. 

(2) F. Diez, Grammaire des Lang. rom. Paris, etc. Intr. — Max Muller, 
Leti, sopra la Scienza del Ling,^y^ — e Nuove Letture etc. VI.* 



grandi paesi. In conseguenza avviene di osservare che in 
una lingua o parlata si riscontrino voci e forme che si ri- 
cercano invano ne' tipi modificati di altra lingua o parlata 
affine, e quali invece si ricongiungono più direttamente col 
prototipo latino. A proposito mi piace qui trascrivere poche 
parole del Nannucci, nostro scrittore fra i più autorevoli 
m fatto di filologia italiana, e dirette a quella peste di cor- 
ruttori del buon gusto nelle lettere che fra noi si chiamano 
pedanti. Dice dunque il Nannucci (1): « I pedanti e i lin- 
guai hanno una loro maniera speciale di ragionare: noi di- 
ciamo così; anche i Francesi così: dunque noi usiamo un 
francesismo. In questa guisa ci predicano per francesismi 
un buon numero di voci, che poi non lo sono. E per re- 
carne altri esempi. Noi diciamo meszi per facoltà, ricchez- 
ze; ma i Francesi dicono moyens; dunque noi usiamo un 
francesismo. Noi diciamo gerito per uomo d' alto ingegno; 
ma i Francesi dicono géme: dunque noi usiamo un france- 
sismo. Dante ha detto difese per proibì, impedì; ma i Fran- 
cesi dicono défendre: dunque Dante ha usato un francesi- 
smo. Ammiranda loica, diremo col Gherardini, e matta disra- 
gione il dire che, perchè i Francesi usano una tal voce sia 
passata nella nostra lingua. Ma i pedanti e i linguai cin- 
. guettano a caso, né sanno risalire alle origini delle parole, 
né veder la ragione per la quale molti modi sieno comuni 
alle lingue romanze, come nate da una medesima madre, 
e non propri esclusivamente d' alcuna di loro. » Conchiudo 
adunque che sebbene molte voci e forme Calabre si riscon- 
trino anche in altri dialetti italiani o nelle lingue scritte ita- 
liana, francese, spagnuola, germanica, non é a dirsi in mo- 
do assoluto che sieno state prestate da alc\ina di esse, quan- 
do possono rapportarsi per maggiore affinità alla lingua ma- 
dre comune. 

§. 5. Ritengo poi che il dominio germanico, segnatamente 
nel medio evo, e lo spagnuolo e il francese ne' secoli po- 
steriori, abbiano avuto non poca influenza su i dialetti dlta- 
lia; ma questa è deciso che debba restringersi a una certa 
mischianza di voci come semplice aggregazione esterna, 
non mai però come un elemento organico. Rileva perciò 
di osservare in quanto ai vocaboli, se questi trovinsi usati 
dai popoli italici prima della invasione germanica, spagnuo- 
la, francese, o dopo. Di quei vocaboli latini Federico Diez, 
il grande autore della Grammatica delle Lingue romanze 
(Introd.) fa due classi, V una di quelli che gli antichi ci tra- 
mandano espressamente come bassi o inusitati {vocabula 

(1) La Letterata del I. sec. della Lingua ital. — Firenze. Barbera, 18S6, 
p. XX, Voi. L 



— 6 — 

rustica, viilgaina, sordida ), e la seconda di quelli che pos- 
sono riguardarsi come tali, perchè esprimono cose di uso 
quotidiano e si riscontrano negli autori poco curanti della 
eleganza dello stile. 

§. 6. Lo stesso s' intende detto pe' vocaboli greci. Si han- 
no di quelli che si rapportano direttamente al greco antico, 
Eiù o meno classico , e discesi a noi sin *dal tempo della 
lagna Grecia o dagli avanzi di quelle genti vetuste; e di 
altri che introdotti ne' secoli posteriori e durante la domi- 
nazione bizantina, non sono tutti di fonte greca; giacché vi 
s'incontra grecizzati e misti un notevole nimiero di voca- 
boli germanici, gallici, italiani, turchi, arabi ecc. Vanno fa- 
cilmente caratterizzati, sia dal significato antico o recente, 
sia dalla forma tematica primitiva o dall'altra trasformata 
pe' successivi mutamenti. 

§. 7. Di questi fatti io terrò conto nello studio delle pa- 
role; ma ricordo che le lingue latina, greca e germanica 
sono pure sorelle nate dallo stesso fonte ariaco, come so- 
relle sono la italiana , spagnuola e francese derivate dal 
fonte latino; ond' è che V affinità di alcune parole di quelle 
lingue deve qualche volta rapportarsi ancora a quella ori- 
gine primitiva e comune. 

Ho premesse tali avvertenze, perchè avvenendo il caso 
io possa invocarle, senza bisogno di ulteriori dichiarazioni. 

Nota bibliografica 

S, 8. De' vari dialetti della Calabria cosentina solo quello di Aprigliano, 
complesso di borgate a sei miglia sud-est da Cosenza, h^ i suoi scrittori; 
per lo che ritiensi come il rappresentante degli altri delia Provincia com- 
plessivamente riguardati. Ed è viva in quei cittadini la tradizione della col- 
tura del loro linguaggio patrio, giacché non vi è fatto di qualche impor- 
tanza in quei villaggi che non ispiri la loro musa popolare e non si pub- 
blichino su i Giornali o altrimenti Poesie di occasione. 

I libri notevoli pubblicati sono — Raccolta di Poesie Calabre^ che con- 
tiene le Poesìe di Domenico Piro (Duonnu Pantu) e di Ignazio e Giuseppe 
Donato, tratte con molta cura da manoscritti e dalla tradizione, e per la 
prima volta pubblicate nel 1862> sotto la data di Lugano, da Luigi Galiuc- 
ci, co^ V aggiunta di alcune Poesie giovanili delio stesso editore. Duonrvw 
Pantu è il vetusto poeta popolare, venuto in fama sopra gli altri forse per 
la lubricità de' suoi Ganti: visse nel secolo XVIL e mori nel 1696, come 
si ha da iscrizione lapidarla tuttavia esistente nella Chiesa di Santo Stefano, 
dove fu sepolto. Ne' suoi Ganti si rivela molta veoa poetica, e si riscon- 
trano forme del dialetto un pò più pure che ne* Poeti posteriori: però a 
causa degli argomenti licenziosi la loro pubblicità e lettura è molto ri- 
stretta. Ignazio e Giuseppe Donato erano zii materni di Duonnu Pantu. Una 
seconda edizione di detta Raccolta^ meno le Poesie del Gallucci, fu fatta 
in Cosenza nel 1872. 

La Gerusalemme liberata di T. Tasso, trasportata in calabrese, In ot- 
tava rima, da Carlo Cosentino, sotto la data di Cosenza, 1737. E' in corto 



una 2^ ediz. nelle Appendici del Crati^ giornale che si pubblica in Cosenza 
da G. Gallucci. 

Fari Componimenti poetici di Liborio Teiere, Professore di Lettere gre- 
che e latine nel Collegio Italo-greco ora S. Adriano, e poscia nelle Scuole 
de' Gesuiti in Cosenza: ne^ quali vanno compresi alcuni in italiano e pochi 
in latino — Napoli 1733. 

Eaccolta di Poesie di Luigi Gallucci — Cosenza 1849. 

// Vangelo di S. Matteo^ tradotto da Raflaele Lucente e pubblicato in 
Londra nel 1862, per cura del Principe Luciano Bonaparte e nello interesse 
della Società linguistica sotto gli auspici di quel Principe (in prosa). 

Jl Paradiso di Dante Mighieri^ Vers. per F. Limarzi — Castellammare, 
1874. 11 dialetto di questa versione none a rigore TApriglianese, ma invece 
quello di Rogliano -Marzi, patria delP Autore e nei contermini di Apriglia- 
no. In generale poi è da notare che tanto nelle Poesie originali quanto nelle 
Versioni, essendo esse opera di uomini culti, si riscontra mista al dialetto 
non poca fraseologia del parlare italiano. 



§. 9. I suoni che ne' dialetti calabri avanzano dall' anti- 
chità greco-latina sono: 1.® ?; 2.® x palatale, che scrivo xj 
per distinguerlo dall' altro x gutturale simile al lat. /i, C[uale 
secondo Mario Vittorino si pronunziava profundo spirita , 
anhelis faucibus, exploso ore; S.^ j; 4.** 6 e a molli. Gli altri 
suoni sono identici ai corrispettivi italiani, meno una forte 
accentuazione nasale nelle vocali, sopratutto innanzi m ed 
rij propria dei dialetti della zona cosentina. 

§. 10. Il suono t risalta particolarmente ne' dialetti di Sci- 
gliano, Aprigliano, Celico, Grimaldi, S. Giovanni in Fiore, 
Mandatonccio, e con più intensità nel principio delle parole; 
Kt o ^ini p. sé, ì;ira p. sera, Kita p. seta, Kte p. sei, %ecuro 
p. sicuro , Kegnuru p. signore^ ecc. In mezzo le parole si 
sente meno intenso, e ciò non solo ne' luoghi indicati, ma 
anche nel resto della provincia: ammainare p. socchiudere le 
imposte della porta y ca^a, caì;ata, cùcjere p. cucire, mixfi 
p. mese, purtu^u p. pertugio, shcardusa p. tavola da letto. 

§. 11. Il suono aspirato palatale xj predomina nella zona 
cosentina, si sente poco altrove, e m qualche parte quasi 
nullo. Eccone per saggio degli esempi; aX]are (trovare), à- 
Xjitu (alito), x^atu (fiato, lat. hiatus), X]àuru (alito del forno), 
axja (pustula), xSume (fiume), xj wma/?a (fiumana), xjwre (fio- 
re), ìuX]are (somare) ecc. Il gutturale x o lat. A, che anche 
risalta ne' medesimi luoghi qui accennati, e massime in Sci- 
gliano, Grimaldi, Lago ecc., premesso all'è e all'i si al- 
lontana da quello della stessa lettera così situata nella pro- 
nunzia greca moderna, e ci dà invece 1' altro che i Fran- 
cesi emettono pronunziando il loro helas. Ora perchè que- 
sti due ultimi suoni non si confondino, segnerò il secondo 
con la lettera h. Es. xame, Tratta, xora, xrillu, xune, put- 



— 8 — 

tixa^ fiera, hilu, hialiu, Prehettu, Serahinu; ip.fame, gatta^ 
fora, grillo, fune, bottega , fera , filo , figlio , Prefetto , Se- 
rafino, 

§, 12. Il suono j non s' intende quello della corrispettiva 
lettera italiana, che sarebbe l' i lunga, sibbene il suono pa- 
latino moUe popolare = gr. v innanzi e ed i della pronun- 
zia moderna, il quale continuando nella tradizione , anche 
come segno grafico, dopo il rinascimento ha perdurato inte- 
gralmente nelle popolazioni meridionali, mentre ne 11' Italia 
mediana modificavasi da tempo nella a sia gutturale sia pa- 
latina, nello idioma francese in queir altro suono particolare 
che dà la j in jamais, je, joli, jour, e altrove nella sibilante 
s (zanuari p. januari, Zesu p. Jesu) (1). Reco per esem- 
pio i seguenti confronti : in principio di parola , Jennaru , 
Jesu {Jesus nella esclamazione), iocu, jocare,Jove ejuoou, 
Juda, Judeu, jungere, accanto alle lat. januarius, Jesus, jo- 
cus, jocare, joois {diesi, Juda, judaeus, jungere, che nello 
ital, danno gennajo. Gesù, gioco ecc. — in mezzo le parole 
maju, pieju, praja^ acc. a majus, pejus, plaga, in italiano 
maggio, peggio^ piaggia — Anzi il lat. offre persino parole 
con g avanti vocale, che in Calabria si pronunziano per/- gre- 
ner, genu (diminut. genuculum) regere, fugere, frigere, ài- 
venisino jéneru {Hev-os), jinuocchiu, rejere, fujere, fri/ere; e 
anche avanti consonante : pugnus e agnus hanno' dato pui- 
nu e pujinu, àinu e àjinu, dhe se vuoisi estendere un pò 
la ricerca, avanzandosi nelle prime popolazioni della con- 
finante Basilicata sulle classiche terre di Eraclea e di Me- 
taponto, si sentirà (in Montalbano p. es.): jallina p. galli- 
na, jatnma p. gamba, jiranu p. grano. 

Il suono della j francese, come è stato qui sopra indica- 
to, si sente anche in poche voci calabresi, quali sono vugiaru^ 
vrage, liccugìa, e qualche altra, che rispondono alle italiane 
bugiardo, bragia, leccornia. Questo fenomeno m'induce a 
credere che il suono francese doveva esistere anche nella 
pronunzia popolare latina dei bassi tempi. 

§. 13. L' ammonimento del 6 nel suo corrispondente la- 
biale è un altro fatto che pure ha evidentemente la sua 
ragione nella influenza antica del suono gr. (3, come da se- 
coli pronunziasi sul suolo di Grecia, Sentiamo dire varca, 
varva, varviere, vasu, vasare, vasciu, varrilu, vattisimu , 
vioiri (lat. bibere), voje o vue, vruodu, vacca, vuccune, livru, 
cravunu ecc., per barca, barba, barbiere, bacio, baciare, 
hasso% barile, battesimo, bere, bue, brodo, bocca, boccone, 
libro, carbone. 

(() V. intorno a questo suono, D, Pezzi, nella sua Gram. storico-com- 
par. della Ling» lat. S. 18. 



— 9 — 

Lo stesso osservasi in rapporto al suono molle d =» gr.. 
9. Nelle voci latine originali, come anche nelle italiane cor- 
rispondenti esso si rivela solo in mezzo : benedieere, madi" 
dus, odor, pudor, sudor ; ma nel d iniziale mai. — Invece 
ne'dialetti calabri si trova anche in principio. Esempi — $uce 
{u largo), Subire j lunare, iannatu, HmoniUy ^iavuluj ecc., 
da dulcisj dolor, donare^ damnatus, daemonium, diabolus; 
e in quello di Acri , per lo scambio della l in ^ {%. 19 ) , 
$uce (u stretta^, ^ampu , dvru, ^upu, nuvu^u, nuvMunu, 
ecc. rispondenti alle itaL luce, lampo, libro, lupo, nuvola, 
nuvolone. 

§.14. Sono degni di nota i seguenti altri fatti fonetici, 
che si riscontrano in Calabria. 

a) La prevalenza dell' wsull' o. Es.pumu e puma (lat.joo- 
mum e poma); àrvuru (arborem), sulu fsolus), vuce (vocem), 
nume fnomen), nudu (nodus), munte (montemj, unure (ho- 
norem), ura (fiora). Ruma (Roma), e una gran quantità di 
altri vocaboli. L' u prevaleva nel linguaggio degli Osci , il 
che ci rinvia ai Bruzi bilingui (v. §. 1.), laddove V o preva- 
leva in quello dei Romani Jl), sebbene poi più tardi nel la- 
tino popolare siensi confusi in u (2). 

b) La prevalenza deir i sul!' e, massime in mezzo delle 
parole. Es.^mmtna, rina p. arena, eira, tila, sira, stilla^ si- 
mina, siminare , mise (mensis) , tisu, stisu, Jilice, JUicissi^ 
mu ecc. (3), in principio ishca p. esca, e qualche altra pa- 
rola: in fine, negP infiniti e in altre voci de' verbi vària il 
suono ora e ora /, come vedremo altrove. Ui presso i 
Latini era più forte dell' e, onde spesso assorbivalo. Avven- 
ne perciò che le forme arcaiche navebos, tempestatebus, me- 
reto , fameliae , Menervae, nel periodo classico divennero 
navibus, tempestatibus, ecc. ; e veam, secondo Varrone di- 
venne viam, e Tito Livio usò sibe e quase (4), e si disse 
indifferentemente here ed heri, mane e mani, vespere e ve- 
speri. Similmente Vi lungo ne'. tempi anteriori ad Augusto 
scrivevasi o raddoppiato o con ei, onde la varietà delle for- 
me delle parole heic e hic; omneis, omnis, omnes. 

e) La prevalenza dell' a suU' e, meno estesa di quella dei 
due casi antecedenti (fenomeno assai spiccato nella pronun- 
zia di Oriolo e Cariati). Es. alijere p. eleggere', appi ed 



(ly Galvani, Delle Genti e Fav. loro in It., Firenze 1849, p. 83, 314. 

(2) Pezzi, Op. •cit. §. 19. 

(3) Leggesi in Fabrettì, Glossar, ItaL questo passo di Paolo: distisunh 
et pertisum dicebant ( Latini ) quod nunc distaesum et pertesum — Si 
legge ancora /i/ix, filicissimus, filicissima p. felix ecc.,, parole deiunU 
dalle iscrizioni presso Grutero, Oreliio, e in carte dei tempi bassi. 

^4) Quintiliano, Jnstit. Orat. I. 7. 

2 



— 10 — 

abbi p. ebbi, par p. per — (par Diu), cìciaru p. cicero. Ci" 
ciarone p. Cicerone, cca p. chCj dunca p. dunque, chiova p. 
piove. L a è la vocale fondamentale delle lingue ariane , 
sopratutto nelle più antiche, come il sanscrito e il dorico. 
L' a dorica è noto essersi mutata nell' n o « degli altri dia- 
letti greci affini, come appunto in Calabria V a sta per e. 
d) Il suono cerebro-dentale sci, equivalente al sh inglese, 
e che io scriverò con questa cifra. Si riscontra generalmen- 
te, sopratutto e con maggiore risalto nel Rossanese, e in 
principio e in mezzo di parola, innanzi a vocale e a con- 
sonante. Es. shartuj shorta, shughiu, shùnnere^ shcamare^ 
shcarare^ vashu, ashcuj ashcunuy rashcu, rashcare^ che in 
ital. equivalgono, grossa fune (sarte), sorte, subbio , sciogliere, 
esclamare, ricercare, basso, scheggia di legno, tavoletta di 
legno fissile, graffio, graffiare. Nel dialetto napolitano è una 
delle caratteristiche più spiccate. I germanonli ad ogni co- 
sto lo faranno rimasto in Italia dai dominatori settentrionali 
nell' ampio periodo dei bassi tempi. Io lo veggo in generale 

groprio dei popoU della famiglia ariana, giacché leggo in 
topp (1) che fra i tre suoni della sibilante s nel sanscrito 
vi è pure il cerebrale, che si pronunzia come il eh france- 
se, il «^ inglese, 1' alemanno sch, lo slavo tu; al quale in 
seguito aggiunge anche una corrispettiva lettera dello zen- 
do. Vi è pure e largamente usato nell' albanese , idioma 
stretto in molta affinità col greco, e in qualsiasi posizione 
di lettera: shuum (assai), sheuglienje (svello), shkier (lacero), 
bashc (assieme), mish (carne), shesh (pianura). Ritrovandosi 
perciò in tante lingue legate da antica parentela di origine, 
non veggo la ragione perchè possa dirsi venutaci dalla terra 
del Danubio, anziché dalla primitiva tradizione, benché non 
si riconosca nel greco e nel latino classico. Eppure i Latini 
lo aveano, sebbene solo innanzi vocale, in scelus, scena, scio^ 
e in altre voci consimili; e non è. di poco momento, a mio 
credere, il trovarsi le due forme indicanti i due suoni del 
s semplice e del s dento - cerebrale in una stessa parola: 
scinis e sinis, sciro e siro, scirpus e sirpus, scirrhos e 
siros ecc. GP Italiani da simia, insipidus, Casina, fecero sci- 
mia, sciapido, cascina. 

]M[i].ta.ixi.eiiti di suoni 

%. 15. Anche nel mutamento de' suoni i dialetti calabri 
offrono quasi intero il sistema fonico proprio delle due lin- 

^1) Gramm. Comp, dès Langues eie. Paris MDGCGLVI. $. 21. b e 52. 
V. anche Schleicher, Comp. di Gramm. Gomp. ecc. $. 4. — e Baudry, 
Cramm. Comp, des Lang. class, p. 168. — Paris, 1868. 



— 11 — 

§ue madri. Lascio da parte lo scambio delle vocali, potin- 
osi inferire da quanto si è discorso nel §. 14. Il resto è 
conforme a quanto si osserva nel comune linguaggio d' Ita- 
lia. Mi fermerò quindi alle sole consonanti. 

§. 16. Labiali -a) B si cambia in i? e viceversa. Il cala- 
brese dice: varva, livruj vuoshcu^ vasciu, p. barba, libro, bo- 
scoj basso, {v. §. 13); e per lo contrario, besperu, brtgogna, ba-^ 
cabunnuy ba, benutu, abbiare, ebbtva. p. vespero, vergogna, 
vagabondo , va , venuto , avviare , evviva. Vi è dunque lo 
scambio del suono molle del p gr. col duro del 6 latino. 
E qruesto fatto si nota essersi verificato ne* primi secoli 
cristiani, trovandosi in iscrizioni e documenti pubMci di quei 
tempi: Favio, miravili, sivi, quivus, verva, manuviae, p. Fa- 
bio, mirabili, sibi, quibuSy verta, manubiae; e dall' altra parte, 
larba, bita, berna, jubenis, beteranus, abe, baccha, (vacca), 
BalentinianuSj Vi. larva, vita, ecc. (1). 

6) B in m. Si ha: muccellatu, specie di torta a quadrelli; 
jimmUf p. gobo in Albidona; subburcu e summurcu, sepol- 
cro, = lai. buccellatus, gibber , sepulcrum; murgia, roccia, 
strato di pietre (gr. TrupViov dim. di TrupVos) lat. burgus, piccolo 
castello, secondo Vegezio (v. appresso Catal. delle Par.); 
mammuocciulu it. bamboccio; mucatare p. rassettare i panni 
nel bucato, mmucca e mmuccare, assimilazione p. in tocca, 
imboccare. Questo scambio di suoni era proprio degli Eoli e 
dei Dori. Notansi dei primi le voci paT«iv p. Trareiv, xuppvflT»38 

p. xupcpv>JT>JS , de' SeCOnoi a/xavctS p. arra?, e dei LaCOni àp^ffo« 

p. ajSu^os (2). Nello idioma dei Latini il fatto si riscontra sola- 
mente quando il 6 è innanzi a n, come si rileva da scamnum 
acc. a scabellum, Samnium acc. a Sabini, amnegaverunt 
nel latino della decadenza invece di abnegaverunt ^ Come 
caso sporadico vi soirehhe promulgari ip. provulgari (y p. 6), 
e come assimilazione V oo e sub in composizione coi verbi 
che cominciano con m. 

e) P in e gutturale — sopratutto nel gruppo latino pi , 
che si è trasformato in pi it. e in e/it calabrese, av. vocale. 
Es.planus, platea ( 7r>aTus ), plenus, pluit, it. coppia, pruritus, 
in ital. piano, piazza, pieno ecc. , in Calabro divennero — 
ehianu, chiazza, chinu\co\ suono del x palatino greco, xmw), 
chiave, cucchia, chiuritu. La espressione ital. per Dio , in 
Scigliano diventa car Diu e car Deu {a per e, v. §. 14). 
È noto il tramutamento del tt gr. in x* appo i Joni, onde le 
voci xoj, xobs, xoT« per ttou, TToios, TTOTi. I Latiui ebbero pure 
il loro lupus acc. a ).uxos, il luctus acc. a >u7ri3, il Jecur acc. 

(1) Pezzi. Op. cit. p. 54 e 191. — A. Mai, Note a Cicer. De Mep, pas- 
sim. — Fabretti, Op. cit. , nelle voci corrispondenti. 

(2) Ahrens, De Dial. Aeol §• 7. 6. e Z)e Dial. Dor. §. 10, 8. 



— 12 — 

ti nnap, o che questo fenomeno sia puramente latino, come 
sostiene il Corssen, o che ad essi sia provenuto dall'osco 
e dall' umbro, come vogliono lo Schleicher e l'Ascoli, i quali 
ultimi mettono a confronto le v. lat. quis con 1' umbro jow, 
e quod, quidquid, con le osche pod, pidpid; popina con co- 
qutna e coquere. È questo anzi uu fenomeno proprio a tut- 
ti i popoli neo-latini (1). 

Intorno al mutamento delle labiali in gutturali abbiamo 
pure lo esempio della 6 o o in g: in Albidona si dice gu- 
mìle ciò che altrove è gilmmula^ vumbulaj vùmmula, dal gr. 
pou^v^Loa^ Jiasco; garàttulu, V ital. barattolo (vaso di terraj, 
di origine tedesca. Il Galvani (p. 344) nota che 1' arcolaio 
in Italia è detto dove bindolo e dove vìndolo o guindolo. 

d) F in X e h, coi rispettivi suoni ed esempi segnati nel 
8. 11. Nel greco si riscontrano fWdua e x>i^aw, y>tapo» (Esich.) 
e Xk^pon, eXdfpos paragonato da Curtius ad slaX-js: nel lat. 
Jet. acc. a XoX-o«, heu acc. a yeo; inoltre le voci nihil o ni- 
hilum ==i ni'Jilum , cioè non unjilo, hircus dai latini detto 
Jircus, hoeaus forma arcaica diventata in seguito foedus, 
ed altre testimonianze che si leggono registrate, fra i molti 
scrittori di tali materie, da Schleicher e Max-MuUer (2). Il 
quale ultimo scrittore soggiunge che nello spagnuolo 1' h 
piglia sempre il posto di^, onde in quella lingua si ha: 
nablar dafabularej hijo dsi JiliuSj hierro daferrum , hilo da 
Jllum. Queste voci hanno quasi la identica forma delle cor- 
rispettive higliu, hierru, hilUj del dialetto di Scigliano e Gri- 
maldi: che anzi l'^in Scigliano particolarmente non si sente 
in alcun modo. Si badi però a non crederle di provenienza 
spagnuola, giacché oltre le ragioni della parentela di origi- 
ne, di che si è parlato nella Introduzione, vi è il caso ri- 
stretto quasi solo a quel breve tratto di paese, laddove per 
lo contrario se ne dovrebbero riscontrare le tracce in tutti 
i paesi al dominio spagnuolo lungamente soggetti, ciò che 
non si verifica. È poi riconosciuto che una lingua straniera 
importa vocaboli, ma non organismo nelle lingue degli altri 
popoli, e la pronunzia ne è parte organica naturale. 

8 17. Dentali -a) D in r — Si dice in molte parti della 
provincia con più o meno forza, particolarmente nel Co- 
sentino: cura p. coda (oupa?), rirupu p. dirupo^ maronna p. 
madonna^ moreratu p. moderato^ rirere p. ridere^ rue p. due^ 
riàvulu p. diavolo, rinari p. denari, jiritu metatesi di riji- 

(1) Riguardo a questo fatto v. le Op. cit., di Schleicher, pag. 137; di 
Baudry, §. 101; di Pezzi, p. 82 —V. pure Max-Muller, N. LeU. IV e VI, 
« Delàtre, FocaJb. German, p. 36-37. 

(2) Schleicher, Op. cit. p. 144. — M. Muller,0p. cit. Voi, 2. pag. 42, 
Lett. Vili.* nota. 



— 13 — 

tu = digituSi vera p. teday ecc. — Nel dialetto di Morano 
V r si raddoppia : parimente in quello di Spezzano Piccolo. 
Gli Osci diceano rerer, gli Umbri rercj il latino dedit, pri- 
mitivamente dede (1), ital. diede. Nel lat. arcaico poi u d 
spesso si è indebolito in r, come si rileva dalle voci: ar- 
vorsuSj arfuisse, arvenas^ ar^ apor^ p. advorsus e quindi 
adversuSj adfuisse^ advenaSj ad, apud; e nel lat. classico, da 
meridieSy arotterj arcesso, modificazioni di medidies, adbi- 
ter, adcesso. GV Italiani hanno raro e rado (2). Il caso op- 
posto della r in rf si ha in S. Giov. in Fiore: Duoccu p. 
Rocco, dosolio p. rosolio, dosa p. rosa. 

b) D in n — Nàmi p. dammi (in Corigliàno anammiy col 
g prostetico), nunca p. dunque, nutturatu p. dottorato nel 
senso di letterato. Il latino ce ne offre scarsi avanzi in mez- 
zo al verbo caedo acc. al gr. xatvw, a coriandrum acc. a 
•/opiavvov. L' italiano ha pernice che è il \qX. perdicem e le due 
forme della stessa parola lampada e lampana. In principio 
di parola poi il Vossio (3) nota solo il gr. idiiaros , pane a- 
^imo, che nelle Tavole Eugubine trovasi scritto naratu. 

e) T in e. — In principio di parola cruongiu (it. moncheri- 
no)^ truncus lat. ; in mezzo, curciu (mo32o) =^ curtus, pie- 
cirillu e pittirillu (piccolinoj ^=^putillus, nel lat. barb. pitil- 
lus; mbracchiare = ital. imorattare; ntantatu, ntantaratu =■ 
incantato; cuttunu p. tuttuno (Albid.); cugnatu p. pennato. 
I Filologi hanno accertato V affinità e lo scambio de' suoni 
greci T e x: 7ehos e y.«boj, e del t col latino q, in origine 
e, (TB = que, Tts= quis — it. chi). Si ha inoltre nel lat. fui- 
crum acc. a fultrum. 

e?) T in s e ^ — Ajosarsi p. ajutarsi, anche nel senso di 
sollecitarsi; zumbare p. tombolare. In gr. tt^outios e TrXoufftos, 
TU e €^J\ in lat. me r tare e pultare, v. arcaiche p. mersare e 
pulsare. 

§. 18. Palatini -a) C avanti vocale passa in 3, o sem- 
plice raddoppiato. Es: in principio, jsertu, 3inzulu; in mez- 
zo or zulù, trunzu,fazzu, lazza, mustazzulu, mustazzu, scaz- 
zar e, jazzàre (in senso di nevicare), strazzare, rispondono 
alle voci italiane , certo, cenciolo, orciuolo, tronco , faccio, 
laccio , mustacciolo , mustaccio , schiacciare , ghiacciare = 
diacciare , stracciare ; e viceversa ciampa e ciampare p. 
scampa e zampare, pacciu e paccia ip. pazzo e pazzia. Que- 
sto fenomeno è comune con altri dialetti d' Italia, e si ri- 
scontra anche nella lingua primitiva del duecento, la quale 
abbandonando p. es. le forme ài /azza ip. faccia, trezza 



(1) 

(2 
(3 



Fabretti, Gloss, Italie, v. Dede* — Schleichcr, o. e. p. 171 
Pezzi; Op. e. p. 153-54. 
Etymbl. v. Nanus. 



■Wi^™— 



-■— — — -r 



I 



— 14 — 

. treccia , ed altre simili , ritenne però donsiélla derivata 
a dominicella^ lonza da lyncem, $ezzo da secius, $oz2o da 
sucius poi sucidus, delizie da deliciae. Appo i Latini in molti 
casi il suono ci innanzi vocale si confuse col ti , onde la 
doppia forma Mucius e Mutius, Accius e Attius; il quale 
ti da noi altri si pronunzia zi. 

6) La X in j , in ^ e in a. Es. — xjilona, jilona, zilona 
(testuggine), dal gr. x«>wv/3; zimmarulhecco), da Xipaposjja- 
mu-ninni (andiamone, dal lat. eamus) in alcuni luoghi, x/a- 
muninni iiT Grimaldi e altrove, samuninni nell' Amendola- 
rese; xannacca in S. Pietro (collana), /a/inacca in Rovito, 
Pedace e altrove, sannacca in Rose. Si riconosce in esse 
V ammollimento naturale del suono x gutturale nel palatino 
xj, e il facile mutamento di questo nel rispettivo medio 7 
ammollito in j lat. (§. 12.); onde XeXwvo diede xjilona e ji- 
Iona. Così parimente xjume, xfumana, xjure (§. 11. J si pro- 
nunziano in altre parti della Provincia, jurrie, jumana, jur- 
re. Il passaggio della j in z si riscontra nei bassi tempi la- 
tini, avendosi da iscrizioni e documenti ^a/iwanp.yanaaW, 
Ze^v p. Jesu^ ZouXtag p. JuUae , cozugi p. conjugt (1). Cosi 
da jitonaj zilona. La v. zimmaru ha perduta la sua forma 
di transizione jimmaru, la quale però si conserva in àjimu 
p. azimo. La ^ poi essendo una dentale spirante forte si 
è ammollita nella sua corrispettiva s, samuninni^ come ap- 
pimto il lat. Jlorem produsse il calabr. xjure e jure e il si- 
ciliano sciurej schiacciando V s in sci. L'opposto sarebbe il 
zizyphum lat. (^i^vyov) diventato nel Calabro jùjula ^ frane. 
jujube, ital. giuggiola; sujlare nel juxjare. 

§. 19. Liquide — aj L in au avanti un' altra consonante. 
Es. caudu, cauce, fauce, fauzu, autu, autare, p. caldo, cal- 
ce, falce sfalso, atto, altare. Si riscontra anche negli scrit- 
tori del Trecento, come in altri dialetti neo-latini. È così 
che il Portoghese dice: escuitar p. auscultare, mutto p. mut- 
tuSf cuytelo p. cultellus. Però è una forma tutta ^reco-cre- 
tese antica, leggendosi nelle glosse cretesi di Esichio «u/av 

p. a>x^v, avxuova p. a>xuova, eCG. (2), 

b) L in d — Nel dialetto di Acri: dingua, ditterà, divru, 
nuvuda (con la d molle, §. 13.), p. lingua, lettera, libro ^ 
nuoola; in Rovito vudimu p. vulimu, come si dice altrove, 
(lat. volumus); in Donnici Superiore, sade p. sale, sudata 
p. salata; in Cosenza, d' econumu, d ispetturu, d* istrutturuj 
confondendo spesso V articolo col nome , come in qualche 
scrittore del Duecento, e anche oggi nel contado fiorenti- 
li) y. Pezzi, Op. cit. p. 150, e nella p. 198 ne spiega la ragione dei 
processo fonetico sull'autorità di Gorssen. 
(2) Ahrens, De Dial. Dor. §. 15, 5. Diez, Op. cit. T. J, p. 192. 



— 15 — 

no (1). Nel Castro villares e particolarmente , ma dove più 
e dove meno per tuttavia provincia, il doppio l si trasfor- 
ma nel doppio d: iddu, bieddu e biddu, puadu, puddastru, 
gaddu, ^acLaina, purciddu, purceddujsjsu, aciddu, per egli 
(illu = tlle), bello, pollo, pollastro^ gallo, gallina, porcello , 
porcelluzzo, uccello. È una proprietà fonetica e molto ca- 
ratteristica anche dei dialetti di Sicilia e di Sardegna. H 
caso opposto della d in l è piuttosto raro: lortina p. doU 
trtnaj con la metatesi, in Cosenza e suoi casali. 

I Greci aveano da una parte Oxuffeiv»» per OJle^svs, e dal- 
li altra 9«^tTta per yJina , i banchetti degli Spartani. I La- 
tini traendo dal greco dissero lacryma (c^ax^upa), levir (^TaF/jp], 
Vlysses (pi\j^i\j8), ed ebbero pure in forma antiquata dacry- 
ma e dingua^ e olor^ delicare, tmpelimentum acc. a odor, 
dedicare, impedimentum (2). 

e) L in g, gh, gu — Neil' Amendolarese: gana, guce, gu- 
na, gode, gheparu, ghinnu, ghittera, maghignu, mugu, p. la- 
na, luce, lume, lode, lepre, legno, lettera, maligno, muto. In 
Donnicì Inferiore, Paterno, Dipignano, e altrove: guarda, 
Quittera, sague, saguatu, paguazzu, p. lardo, lettera, sale, s'a- 
lato, palazzo. Metto qui a riscontro il gr. f^èVis acc. a pòXi*. 
e il lat. magis acc. a nòikaj sileo acc. a ^tVaw. 

d) L in r — Nel Cosentino: ra, ru, crasse, quarcKi, sur- 
datu, urtimu, furmine, prubicu, Affronsu, p. ta, lo, classe, 
qualche, soldato, ultimo, fulmine, pubblico, Alfonso. Vice- 
versa , legistru p. registro , lituartu p. rituariu (pannolino 
con cui le donne si cuoprono il capo). Si ha pure la dop- 

Sia forma di zànzaru e zànzalu (sorte). Questo mutamento 
i consonanti si riscontra in tutte le lingue indo-europee , 
e perciò anche in molte delle parlate popolari d' Italia; on- 
de il Romano dice , vorta p. volta, ar p. aU er p. il, e la 
plebe fiorentina arto p. alto, cardo p. caldo. Così appo i Greci 
troviamo il dorico >at|3avo» acc. a xpijSavoJ, x>à?w acc. a xpà^w; 
ed appo i Latini le forme coeruleus, januarius, Latiaris, Pa- 
tilia, acc. a coeluleus, jauualis, ecc. L' Italiano pure da ar- 
borem, peregrinus, Mercuri-dies, iece albero, pellegrino, mer- 
coledì. 

Di alcuni fatti sp oradici riguardanti altro scambio di suoni 
si terrà conto nel corso di questo studio. 



It) NaDDueci, Op. e. Voi. 2. p. 48. dove nota lusanza p. la usanza, 
e le y. ant. la lapa p. /' apa cioè /' ape. Anche i Cosentini dicono, '^^ 
deconumu, hi dispettum. 

(2) Ahrens, £>e Dial. Dor. %. 10. 8 — Schleieher, o. e. p. 141. 



16 



A.ltri fònomeni di suoni 



$. 20. I Linguisti notano nel ^eco tre suoni perduti, on- 
de il frequente iato che trae origine dalla elisione delle ri- 
spettive lettere. Essi sono i suoni delle spiranti;, v, 8. An- 
cne il latino ne offre degli esempi , trovandosi Anneus e 
Annejus, Pompea e Pompeja, boum acc. a boves,fuit p. lo 
antiquato ykr?rY, «^nVoi^ws, secondo Pesto, p. ^ntems, cerealis 

{). ceresalts, remus p. lo ànt. resmus. In Calabria quei suoni, 
' 8 meno frequente, si sentono sopravvivere ancora in più 
luoghi, sopratutto nella regione confinante con la Basilicata: 
se non che alcune volte il j molle passa nel g gutturale o 
palatino aspro ^h. Eccone un saggio : 

1. J in principio — ji e jiu (io), jillu (illus are.)» jis8u (t- 
p8U8 ave.) jim (ibam), jtre (ire), jera (eram). In mezzo — 
Lujigi (Luigij, rujina, pajisi (paese) spijunu (spione) strujeré 
(lat. destrueré), miju (mio^ tuju. ecc. 

2. G e gh in principio — gangelu (angelo), gannu (anno), 
oattu ^atto), ghé (èj, ghia (io). In mezzo — legale (leale), 
ìegone (leone), maghestro, paghese ecc. 

3. V in principio — vava (ava, in Fuscaldo\ vaula dal gr. 
av).fl lat. aula (ovile-. In mezzo — Luvigi (Luigi, nel Cosen- 
tino), vàvula p. vaula, duva (due, in Rende, Montalto ecc.), 
àvutu p. autu (alto, anche nel Cosentino). 

4. 6* in principio — strumbune e struneune (troncone), 
seunchiere p. cunchiere (compire, in Castrovillari), soullare 
(zampillare), dal sostantivo vullu e vuddu. 

%. 21. Oltre i detti suoni aggiunti ne' vocaboli delle par- 
late calabresi, sono da osservarsi questi altri ancora, tutti 
rinforzativi. 

a) A pr estetico — Esempi: ajeri, aocussì, avuscid (busso), 
a cumu pari, alUtteratu, addottu. I Greci offrono a^ra^vs e 
ffToX'j*, a-àtì^ (skr. naray sabino neroj, apDiVw (mulgeo), aveipto« 
{iiepo8) — Presso i Latini vi è ad rinforzativo in composi-»- 
zione, come in adamo, aduro, adquiro. Ce V offrono ancora 
1 Romani e i Toscani, i quali pronunziano: accambiare, ap- 
pensare, arricordare; i Napolitani, che dicono: abbramma, 
addò, arremiedio p. bramay dove, rimedio, ecc. 

b) R epentico dopo la ^ e più frequentemente dopo la 
doppia d, in particolare nella zona cosentina, ma con più 
forza in S. Marco, S. Pietro in Guarano. Esempi: trempa 
per timpa (rupe), trùono ( tuono ^, ciddraru (cellajo, l in 
d, §. 19), cupieddru (arnia), tijiddru (lat. tigillum), taravieddru 
(cicaleccio). Questo fenomeno non risulta nei due idiomi 
greco e latino. È però frequente nelle voci dal latino in ita- 



— 17 — 

liano, dopo una muta dentale, come da anitem (anitra), da 
balista (balestra), da encaustum (inchiostro). I Pistojesi di- 
cono mantrice p. mantice. Nell'antico veneziano gli avverbi 
uscenti in mente si rinforzavano in mentre, p. es: grazio- 
samentre , solamentre, propriamentre. Nel dialetto numor- 
bese di Corsica la doppia l fa costantemente tr, che pare 
si pronunzi dr, trovandosi scritto suretra, meschinetra p. 
sorella, meschinella, efratedru^ maeedra i>. fratello, ma^ 
cello. A quale proposito V Ascoli (1) avvisa che V r si svi- 
luppi dietro il robusto suono dentale (maceddu, frateddu). 
H tr pel doppio l in Calabria e ne' luoghi citati si ricono- 
sce nelle parole, langetra p. Umbella (orciuolo), cucumie- 
tra p. cucumiellu (creinolo) frattedru p. fratello^ ec. 

e) Di para^ogico — Es. ca-di p. ca (qua), te-d/(là), ha- 
di, fa-di ^ è-dt, chi-di (lat. quid), cniu-di (più), chiova-di (pio- 
ve), trovau-diffce-diffo^e-di (fu) f ecc. Secondo Curtius (2) 
il d finale nelle forme arcaiche latine segna la terminazione 
casuale dell' ablativo, il quale fatto si è confermato vieppiù 
con 1' analisi del dialetto osco, il più affine all' antico lati- 
no. Di fatti, nella iscrizione di Duilio, monumento del se- 
colo V.® di Roma, si leggono gli ablaXiwì pucnandod p. pu- 
gnando, mxxrid p. mari, dictatored, altoa, maxumodj ecc. 
Aggiungesi però che il d finale si ebbe anche nei verbi, 
che poi passò in t rinforzato; onde le forme classiche ^ectY, 
vixif, reliquit, sit, èxeat, in origine erano/ecw?, vixid, ecc. 
Come unico esempio che ne resti ancora è la voce facitud 

S. f acito j 2' p. dell' imperativo. Per lo che le terze persone 
ei verbi calabrì, faudi, chiòvadi, jividi (ivit), fìcidi,fòzedi, 
p. yh, piove^ ecc. rispondono jjienamente alla forma arcai- 
ca, nella quale è da osservarsi solo il prolungamento in /, 
a causa del vocalismo desinenziale proprio dei dialetti me- 
ridionali e del centro, onde ebbe vita particolarmente l' ita- 
Kano illustre. Inoltre, secondo il Westphal (3), anche nello 
idioma greco le forme to, «vto, touto, n, starebbero p. to<^, 
avTo^, TouTo^, Tt<^, rispondenti alle lat. istud, quod, quid. E le 
voci oJ«, ToeoatTs sou di avviso che accennino pure a questo 
fatto fonetico dell' antichissima lingua degli Enotri e Caoni, 
che abitarono un tempo la Calabria. Ne' Trecentisti trovasi 
scritto ched p. che, come od, sed, benched. 

d) Ni paragogico — Es. tu-ni, si-ni, no-ni (lat. nenu in 
Varrone), muo-ni e mo-ni p. mo(ora), chi-ni interrogativo 
(quinam) , eccuti-ni ( it. eccoti ) , ohimé-ni esclamazione in 

(1) Studi Criticiy p. 28, n.* 1 — Diez, op. e. 

(2) La Filologia e la Scienza del Linguaggio — Prolusione. 

(3) Gramm. metod. della Lingua greca — v. Pezzi, o. e. p. 179. 

3 



— 18 — 

Amendolara ( nel gr. barbaro ocfiwa = ocui — (1) ). Fra i Gre- 
ci i Dori, particolarmente i Laconi e i discendenti di que- 
sti i Tarantini aveano ttfo-^-n p. €7«, t^-va e towu p. tv = ov 
che è lo identico tutti calabrese, epi>« p. c^y, ecc. nelle quali 
voci il v?2 non era semplicemente un suono pleonastico, ma 
una sillaba regolare (2). La plebe e i contadini Toscani di- 
cono tene^ mene p. te e me; gli Aquilani rene p. re, scine 
e none p. sì e no. 

Casi sporadici di para^oge : nel Cosentino narìrchi (nodi), 
chiri-tu p. chUlu (quello, il quid lat. , mutata la d in r, $. 17.) 

Un caso strano è quello di m iniziale innanzi a labia- 
le : mbronu p. bronu (stupido, v. appresso il Catalogo delle 
Par.); m6è, suono che si dà pronunziando la seconda let- 
tera dell' alfabeto 6. Di questo fatto trovansi esempi solo 
nel greco barbaro e in voci italiane grecizzate: tina>ya (palla), 
pTrapowia (baronia) , f47ro<nco(r (bosco) , registrati dal Meursio. 

$. 22. Occorre pure il caso opposto di alcuni suoni dile- 
guati. Fra questi uno dei notevoli è quello della g iniziale, 
come in ranne e rannu p. grande, rana p. grano (antica 
moneta di rame napolitana), rattor-casa p. grattor-cacio (grat- 
tugia). I Latini tolsero il g dalle voci ncUus, navus, notus, 
che in origine erano gnatus, g navus, gnotus. Nei frammenti 
dorici il 7 gutturale = g lat . si ravvisa caduto solo in mez- 
zo ad alcune parole, fra le quali o)io« j). o).t7o» (Ahrens). 

È notevole ancora il dileguo dell' i innanzi n , mutato 
spesso nella sua affine m, quando le parole hanno per pre- 
luso la preposizione latina o italiana in, ovvero la gr. ev, 
(inoolvere, tnfringere, impotens nel significato di sfrenato; 
ingrandire, infangare, impazzire; hSoios, evsnta, eptptfivw). Laon- 
de in Calabria si dice : 'ncamatu (affamato), 'njumatu (im- 
bastito), 'njalatu (esile di corpo, guasto, malaticcio), ^nchiat-- 
tare (ingrossarsi), ^ncrouare (incaponire), 'mpampalutu (i- 
stolidito, rimbambito), 'mpacchiatu (imbrattato), imballatura 
(ballato] o), 'mbriacu (imbriaco), ecc. 

Noto come casi sporadici i seguenti: ricchia (or ecchiaì), 
nu e na (uno e una) , un (non) , cursune in Aprigliano p. 
scurzune (serpente, dal lat. scorpionem); nta (dentro, tàa 
a casa), torà (altare), quara (acquaio), d p. picchiu=po€o 
(in AlbidonaJ. 

$. 23. La lingua latina è scarsa di dittonghi: presenta 
appena ae ed oe, in antico ai ed oi, rispondenti ai ditton- 
gm greci delle medesime vocali. Di questi in Calabria ho 
potuto riconoscere V oe modificato in ui, per la prevalenza 



(1) Du Gange, Glo$8, med. et inf. Graecit. 

(2) Àhrens, De Dial. Dor. S. 32. 



— 19 — 

delle due vocali u ed i (§.14), in fuimmina (foemina) in Luzzi. 
Si trovano però abbondantemente V te e P mo, dittonghi for- 
mati nelle lingue romanze dall' e e dall' o lat. — È cosi che 
la italiana ha fiero, fiele, diede, diecij siero; ma poi, seroo 
e non siervo, come dice il Calabrese, vengo e non viegnu^ 
penso e non piensu, tempo e non tiempu ecc. ; la spagnuola 
na dento, ciervo , finiestra j hierro (ferro); la valacca^er 
(ferro), pierd (perdo) ; la francese antica, come particola- 
rità dialettale, oiel (bellus , bieste, ciert, tierme (terminusj, 
viespre. Parimente V uo si rileva nelle voci italiane, cuore, 
buono, suono, nuoce; ma non nelle altre, sonno, posso, to- 
sto, fosso, porto, morto, che il Calabrese modifica in suon- 
nu, puozzu, tuostu, fuossu, puortu, muortu. Lo Spagnuolo 
lo modifica in uè: bueno,fuero (forum), fuera {foras),Juego 
ijocus)^ ecc. [Ij. 

Il dittongo uo ci mena a un altro fatto di qualche impor- 
tanza. È questo il suono del qu lat. , per cui si contrasta 
tra i Filologi, ma che molti sostengono corrispondere pie- 
namente a quello del e gutturale. In appoggio di questa 
sentenza sono le forme arcaiche co p. quo, cis p. quis, coad 
p. quoad, cod p. quod, condam p. quondam, cotidie p. quo- 
tidiCy e nei bassi tempi si trova scritto viceversa quatm^nto 
p. caemento, quoepiscopus, ecc. (2). Da tale fatto io scendo 
a un altro dittongo che poco si avverte, ma che mi offre 
la occasione di riflettere sulla pronunzia di alcune popo- 
lazioni calabresi e sulla ragione di alcuni vocaboli. In Cas- 
sano, Francavilla, Corigliano, a preferenza, sì sente il suo- 
no cua p. ca: Cuassanu p. Cassano, cuane p. cane, cua- 
darà p. caldaia, in Spezzano P. quarara, cuanziettu p. cal- 
zetta, cuateriu ( discorso molesto, in Marzi ) p. cateriu (in 
S. Pietro); e per l'affinità con la sua media g. Guatarne p. 
Gaetano, gualanu^. colono, guappu p. gappu (bravo), guar- 
zunu ( garzone ). Per lo centrano si aice quasi universal- 
mente per la provincia ca, con pronunzia forte, per lo ital. 
qua; e in varie parti ca, meno forte, nel senso d\ perché ^^ 
lat. quia. Il Galvani (p. 502) nota a proposito che la par- 
ticella quia è monossiilabo e doveva essere pronunziato in 
modo che 1' accento si sentisse protratto suU' ultima voca- 
le , constatandolo la corrispettiva qua dei Sardi , la lingua 
dei quali, come egli si esprime, ci rimane tuttavia in vivo 
testimonio di un popolare latino. 

§. 24. Di assimilazioni non vi è di notevole che una, quella 
della d in n allorché segue a questa lettera: quannu, se- 

(1) Diez, Op. e. Tom. I. passim. 

(2) Fabretti, Gloss. -^biez^ Tom. I. p. 243. » Pezzi, p. 77. 



— 20 — 

cunnUf munnu^ funnu, tunnu^ ratine (grande), p. quando, 
mondo, ecc. Neilat. arcaico si ha lo stesso fenomeno nelle 
voci, distennite p. distendite^ in Plauto, grunnio p. grundio, 
verecunnus p. verecundus^ secunnus p. secundus ( Pezzi ). 
Viceversa nella parlata di Lago, p. es. si ha la dissimila- 
zione della n in rf, dicendosi panàu p. panno. Nel Cosen- 
tino si sente molto spiccata V assimilazione della l in r: Car- 
TU p. Carìx)^ parrare p. parlare. 



§.25. Intorno a questo elemento della dottrina filologica po- 
co è da osservare ne' dialetti calabri. Essi seguono l'accento 
tonico del latino, il quale ha luogo solo neUa penultima e 
nella terzultima sillaba, respingendo qualsiasivoce ossitona, 
ciò che era proprio anche degli Eoh (1). Così invece delle 
forme italiane virtù, potestà, volontà, verità^ il Calabrese 
dice virtute^ potestate, ecc. , e invece delle terze persone 
dei \erhif fUf potè, amò, morì, àìc^fue o fuze, poze, amàu 
e amàudi, morse. Giunge anzi a tanto nella negazione di 
quel suono finale, che persino i monosillabi egli li protrae di 
una sillaba, come si rileva dalle voci, sini p. st, noni p. no, 
funi p. tu, moni p. mo, cadi p. ca, ladi p. là. Vi è poi 
tale libertà di accentuazione nelle parole, da rimenarci spes- 
so alle forme arcaiche latine o greche, quando ne regolava 
il suono non la quantità, portato di cultura posteriore, ma 
V accento. Il quale fatto, mantenuto nella lingua del popolo 
durante la età classica, dopo Augusto cominciò a rinnovarsi 
anche in quella dei dotti, come si ha da Probo e Diomede, 
sino a che nei bassi tempi si confusero incWferentemente 
le sillabe brevi con le lunghe, non tenendosi conto che del- 
l' accento, fatto signore della pronunzia dall' arbitrio popo- 
lare. È perciò che il Calabrese, allontanandosi e dal latmo 
fonte comune e dall' italiano illustre diffuso nella gente ita- 
liana, dice: séntere p. sentire , tènere p. tenere, pèntere p. 
poenitere, tràsere p. transire, sedere p. sedere, vèstere p. 
vestire, rapire p. ajprire (in Cosenza); éramu, èrati,facìmu9 
dicìmu, lejìmu, scrtvìmu, p. eràmus, eràtis, fàcimus , dici" 
mas, lègimus, scrìbimus; e le parole greche ossitene «/avo*» 
aitaios, laitirpos, e la parossitaua npt<r^}jr/ì8, accentuandole nella 
terzultima sillaba, le fece, àmuni [agnello], àpule (morbido)f 
lèmparu (lo splendore del forno ardente) , prèvite (prete). 

(1) Le forme lat. dediic» ilHc, secondo il Corssen, non tono che le- an- 
tiche deduce, Utice. — Ahrent De DM. Aeol. %. 



— 21 ~ 

Quanto sta detto nel presente paragrafo si riscontra pie- 
namente negli Scrittori del primo secolo della lingua italia- 
na, allorché questa balbettando nei dialetti siciliano, napo- 
litano, pugliese, aretino, sienese, bolognese ecc. si risen- 
tiva ancora del latino popolare, dal quale avea cominciato 
a distaccarsi. 



§.26. Ne' dialetti calabresi le parole terminano tutte in 
vocale, come in tutti i dialetti italici meridionali e nella lin- 
gua classica nazionale , essendosi dileguate le consonanti 
latine e interamente sparite le desinenze greche nelle voci 
che dal greco provengono. Ritengo a questo proposito e- 
satta la sentenza del Diez , che i dialetti del sud d' Italia 
spieghino meglio il carattere italiano, la pienezza cioè della 
forma. Vi si osservano però alcune volte strane modifica- 
zioni di prolungamento. 

§.27. Nomi — Avverto j)rimieramente che per determi- 
nare le desinenze dei nomi, quando questi provengono da 
parissillabi latini, io li rapporto ai casi nominativo o accu- 
sativo; quando poi derivano da imparissillabi li riferisco solo 
all' accusativo, seguendo lo esempio di Diez, che dichiara 
essere dessi i due casi tipici e normali su i quali si fondano 
le forme nominali delle lingue romanze. Il lettore ha dovuto 
accorgersi che di questa norma appunto mi sono servito 
sin dal principio del presente lavoro. Le desinenze più spic- 
cate o suffissi sono: 

1) In u — Nel §. 14. si è rilevata la prevalenza di que- 
sta vocale suir o in principio o in mezzo di un certo nu- 
mero di parole latine passate nei dialetti di Calabria. Ora 
si tratta di osservare come il suono u finale latino in que- 
sti dialetti siasi mantenuto vivo e con la integrità della for- 
ma in moltissime altre parole provenute da quella lingua 
madre , laddove nell' italiano si vede mutato sempre in o. 
Eccone un saggio : capu-t, manu-8^ nasus, capillu-s, pibi-Sf 
celu-nij socrU'S, tauru-s, asinu-s, pullu-Sf muruSy campus ^ 
vinii-m, coriu-m, cirru-Sy titillu-s^ verttctllu-s, pejurs (peggio), 
ma/u-s [maggio); staccandone solo la consonante finale. 

2) In i — Anche della prevalenza di questo suono sull' e 
si è parlato nel §. 14. La ricordo ora nelle desinenze di 
alcuni nomi che in italiano escono in e (dall' acc. lat.^ , e 
che si sentono nel Cosentino, particolarmente nei canti po- 
polari: amuri, cori, munti, patri, frati, muglieri, pedi, ar- 
vuri, jurij ecc. Essi appartengono alla 3,* decUnazione lat. , 
la quale offrendo pure la desinenza in i$ , come in 9iti$, 



— 22 — 

elasm, febris, turris, ne spiega già la ragione. Nel nume- 
ro plurale però questa ragione non si vede, e il fatto non 
si spiega altrimenti che con V arbitrio popolare ; giacché i 
nomi sono di genere femminile, e intanto portano non solo 
la desinenza maschile ma persino V articolo. Eccone alcu- 
ni: li o ri o i Jimmird, donni, persuni, vigni ^ pinni, uri (ore), 
crapi (capre), petri^ vacchi, vampi, Jisceddri (fiscelle). 

3) In te: caritate, veritate, voluntate^ quantitate^ timpe- 
statBy 'nfiermUate^ nella intera forma dell'accusativo latino 
charitate-m, veritate-m, ecc. ; in uso anche presso gli scrit- 
tori del Trecento, e rimasta poi come licenza nel linguag- 
gio della poesia. 

4) In jiia: audienzia, licienjsia, cuscienzia^ penitìenzia^ pOr 
cienaiia^ rispondenti pienamente alle parole latine con la ter- 
minazione in ntia; audientia, licentia, conscientia^ ecc. , co- 
me pronunziavasi nei bassi tempi, mentre nel linguaggio ita- 
liano si è modificato in sa. 

5) In ura nel numero plurale: àcura^ nìdura^ travura^ 
capura, cojira e cuojiru ( coria ), crivura (cribra) ^ grupu- 
ra (buchi), stroppura (gli avanzi della ceppaia), scùorpura 
(i frantumi dell^ albero tagliato). Queste ed altre simili voci 
sono formate sulle latine corpora^ tempora^ ecc. , quantun- 
que non appartenessero in origine alla medesima declina- 
zione. Nacquero nel più antico medio evo, quando, sparita 
la lingua scritta, il popolo se ne servì degli avanzi modi- 
candoli a suo modo e senza norma alcuna. Avvenne cosi 
che si perdettero allora le forme neutre, e nei manoscritti 
di quel tempo si trovano animalemy membrus, vestigius, tem- 
plus , e per la desinenza a comune ai femminili singolari 
della 1* declinazione ed ai neutri plurali si fecero exordia, 
aCj gesta, ae; vela, ae; aedijicia, ae, ecc, L' italiano anti- 
quato offre pure donora, luogora, arcora^ ecc. (Diez). 

§. 28. Mi avviene di osservare inoltre un suffisso spe- 
ciale in gnu nelle parole, stifa^nu (cercine), rugagnu (ce- 
sto, vaso) , timpagnu (fondo di botte o di barile) , tirignu 
(formaggio), sgruognu (pugno), ecc. E poiché queste sono 
derivate dal greco, come dichiarerò in appresso, io ci veg- 
go la forma diminutiva gr. tov riunita ai temi di parole u- 
scenti in V, p. es. «rre^av-iov : il suono gnu dai Filologi si fa 
eguale a nju — Il significato però non corrisponde: esso non 
é diminutivo. Ma questo fenomeno rilevato da Diez come 
proprio a tutte le lingue popolari e uno dei caratteri prin- 
cipali del volgare romano, si ha parimente nel greco vol- 
gare il quale ci offre : ttwVwviov (barba), «pTreXtov (vite), Xg>.t^ovtov 
(rondine) , (mapayy tov (asparago) , in cambio delle classiche 
wwVwv, a^nreUs, XeMcù^t, oL(nzoL[ioa os . Cosl purc ucl Volgare latiuo, 
alle voci classiche agnus, apis, avis, auris, cornix, luscinia. 



— 23 — 

gena, orctus, furono preferite agnellus, apicula, avicellus, 
auriculay cornicula, lusciniola, genueulum, orciuolus; che poi 
divennero le italiane agnello, pecchia, uccello, orecchia, cor- 
nacchia, usignuolo, ginocchio, orciuolo^ senza che minima- 
mente vi si annetta il primiero senso diminutivo. Nello stes^ 
so italiano si hanno nella medesima condizione alcuni nomi 
di persona, come Antonino, Nicolino, Carolina, Adelina, 
Giulietta, Marietta; ed in Calabria, Ciccuzzu, Ciccillu (anche 
nel napolitano), Fraschittu p. Francesco, Mimmi p. Dome- 
nico, Peppe e Beppino p. ùiuseppe. 

§.26. Pronomi — Le parlate Calabre ci danno una quan- 
tità di forme del pronome di personal.', e tutte derivate 
dal lat. ego = al gr. sVw, con la soppressione della conso- 
nante gutturale, beotico iwv. Le metto in confronto con la 
stessa voce nelle altre lingue neo-latine. 

Eu nel Cosentino : è 1* antico italiano eo (anche oggi in- 
teso in Malito e altrove), la forma che più si avvicina alla 
originale, ma con V u caratteristico calabrese e uguale al 
portoghese, provenzale e valacco eu. 

Jeu e je, in Cariati, Fuscaldo: è la stessa ew con la .pro- 
stesi della spirante j (§. 20.), eguale alP antico provenzale 
jeu. Perduta V u finale diede 1' altra formale =^je francese, 
benché oggi la pronunzia di quest' ultima non corrisponda 
a quella del j latino. 

Jeju in Amendolara, è forma enfatica e si usa nel lin- 
guaggio animato. Ne veggo il rapporto con la gr. eVwVe. 

Ji, j'iu, in Cerchiara, jiju in S. (riov. in Fiore, yy a in Ce- 
traro e Bonifati, sono modificazioni delle forme precedenti. 
Come modificazioni pure, e pel passaggio del j in g (§. 20.), 
sono gai in Celico, guia in Luzzi, hiu in Lago, con l'aspi- 
rata palatina propria di quel dialetto, (ital. io). 

Ne* casi obliqui del singolare si fa uso della voce mia ac- 
compagnata dalle preposizioni di o de, a, da, come in ita- 
liano. La forma mia richiama da una parte le antiquate 
latine mi-s p. mei e mi p. mihi col prolungamento delP i 
in a, e dair altra le forme del genitivo dorico épiU ed spiiw, 
omerico éj^gu. 

Della 2.* persona tu-ni si è parlato nel §. 21. I casi o- 
bliqui del singolare si distinguono col tia accompagnato dal- 
le preposizioni, come nella 1.* persona. Anche questo par- 
mi un avanzo del ti-s antiquato p. tuij e del dorico tìw. 

Per 3* persona i Calabresi usano, nel Cosentino illu, che 
in altri luoghi si modifica in iddu e jiddu; nel plurale illi 
con le preposizioni. Sono le forme dell' antiquato illus p. 
ille, plur. illi, ridotto nell'ital egli e che si mantengono an- 
che nei casi obliqui — Nel Castrovillarese si dice pure issu 
^ jissu p. illu^ dal lat. is o antiq. ipsus. 



I 



— 24 — 

Sono notevoli questi due altri pronomi : V interrogativo 
chini {). V ital. chi, ma che presenta la forma del quìnam 
lat. , rilevato da Diez nello identico chini dei Sardi , nel 
quien degli Spagnuoli, nel cien dei Valacchi; e il negativo 
nuLlu e nuddu p. nessuno, rispondenti al nemo lat. , ma in 
quel significato usato pure da classici scrittori (1). 

$.27. Verbi — Intorno alle desinenze dei verbi fo rile- 
vare la solita prevalenza dell' i sulU e. È questa la finale 
degl'infiniti in qualche parte del paese, e particolarmente 
in S. Marco, Rose, dove si dice: alari (sbadigliare), arrìn- 
zinari vintirizzire pel freddo), abbuttari (saziare), ammuc- 
c/arr (nascondere;, /lic^Ztan (scintillare), a sr^ccart (salire), 
nciotari (istupidire), suspuliari (render soffice la lana), vi- 
vuliari (dar^ segno di vita). È la finale pure della 3* per- 
sona del presente ed imperfetto congiuntivo, dicendosi in 
Aprigliano: viegni^. vegna, vuogli^. voglia, fuossi^, fosse, 
cacciassi e toccassi p. cacciasse e toccasse ^ delle quali for- 
me abbonda molto la versione della Gerusalemme Liberata 
fatta da C. Cosentino (§. 8). Ricordo poi ciò che ho no- 
tato intomo alla 3.* persona dei verbi, solite a protrarsi 
nella sillaba finale di. Aggiungo che pel mutamento della 
d in r '§. 17.) il di passa alcune volte in ri: onde si han- 
no in Pie trafitta e altrove, edi ed eri (è), sùnudi e sùnuri 
(sono) , hadi ed hari (ha), hànudi ed hànuri (hanno). Si 
sente anche il ni paragogico : eni ed hani. Spesso la finale 
protratta si tralascia: amau, vulau, chiamau, gridau^pas- 
sau, rumpiu. Il quale fatto e' induce a supporre nell' u un 
avanzo del v lat. dal suono consonantico passato a quello 
di vocale. GÌ' Italiani ebbero nel Trecento le stesse forme, 
amao, temeo, udio, quali poi rimasero nel linguaggio poetico. 

Sono degne di attenzione le seguenti altre forme. 

In Morano le seconde persone dell' indicativo singolare 
hanno la desinenza in si, cioè la s lat. protratta neUa vo- 
cale i: dlcisij stàjisi, m/ìrisi, mangisi, binisi, rispondenti al 
dicis, stàs, moreris, manducas, bibis. 

In Castrovillari le aspersone sing. dei preteriti escono in 
i:fui (fu), successi, pinsavi, dissi, jivi, {ivitj, aprivi, divenr 
favi, vidi, scrissi, ec. 

La regione cosentina offre in ze e se la forma aoristica 
greca, riflessa nei preteriti lat. (scrip-si, trac-si) : fùezi (fui), 
vùjozi (volli), foze (fu), voze (volle), joo^e (potè), mx>rse (mo- 
rì), deze (diede). In quest'altra forma, ra col doppio r 
nella 2.* persona imperfetto soggiuntivo, pare che accenni 

(1) Nullo^ atU quam paucissimU praegentibus, Sallustio, Jug. 117. — 
IMli fldes ejus, ntUli opera , nulli res famUiaris defuU, Goni. Nep. , 
dm. 4. — Nulla igitur dicat, Plauto, Juiul, 8, 5, 24. 



— 25 — 

a un avanzo del suono degli Eoli , i quali raddoppiavano 
la r nei verbi in etpeu, facendoli suonare in «p^ w (1) ; le pa- 
role però sono integralmente latine , come si rileva dalle 
seguenti : forra {forem) , jerra [irem) , averra (haberem) , 
derra (darem), sterra (starem), facerra ffacerem), dicerra 
(dicerem), timerra (timerem), senterra (sentirem), ecc. 

Ne' participi passivi è rilevante la tendenza alla forma 
utu. Dicesi ehtangiutu (pianto), ridutu friso), pentutu (pen- 

'tito), scrwutu (scritto), lejutu (letto), sentutu {sentito), feruta 
(ferito), feruta (perito), rijuta (rettoj, trasutu (entrato, lat. 
transttus), jutu e ghiutu (andato, lat. itus), seroutu (servi- 
to), murutu (morto, in Cosenza). Questa forma it^w = w^w«, 
lat. contratta da uitus^ osserva Diez, era tanto in uso nel 

- basso latino che apparisce applicata sin dal più antico me- 
dio evo ad alcuni verbi nuovi, leggendosi in carte del so- 
colo ottavo, ineenduta, pendutusj forbattutus, deeernutum^ 
sternutus p. stratus. 

Fcitti sinta^ssiei 

§. 31. La sintassi ne' dialetti calabri, conforme quasi in- 
teramente a quella del linguaggio italiano, offre pocM fatti, 
che richiamino la nostra attenzione. Eccone alcuni: 
. 1 . La preposizione de anteposta al nome per determinare 
le relazioni del genitivo e dell' ablativo. I cittadini di Apri- 
gliano, Celìco e di altri paesi dicono : chi vò de mia, de tia, 
ac illa (che vuole da me, da te, da quello); chi f azza de 
tia, de illu (che faccio di te , di quello) ; casa de fraterna 
(casa di mio fratello^; ncignu de capa (comincio da capo); 
viegnu de f ore, de casa (vengo da fuori, dà casa), ecc. Que- 
sta preposizione unita all' ablativo è un fatto tutto latino : 
come ausiliaria del genitivo si rileva in qualche esempio 
di scrittore classico, partes de coena in Svetonio, arbiter 
de lite jocosa in Ovidio, genera de almo in Plinio, homo de 
schola in Cicerone; ma più estesamente nel basso latino, 
offrendoci le iscrizioni fin dal quinto secolo questi altri e- 
sempi: vinum de Francia j tabula de Ugno, jilius dere^e, 
aoidus de argento^ recordari de aliquo^ miles de stipendtis, 
curator de sacra via, oppida de Samnitibus (2). 

2. Una nuova graduazione dell' aggettivo graduato mie- 
gliu o mieghiu {melius), espressa con 1' avverbio chiù (più) 
che vi si premette. In Calabria si sente dire generalmente 



(1) Abrens, De Dial. Jeol, §. 8. 

(2) Cantù, Storia degV ItaL Voi. I. App. i.» — Diez, op. e. T. II. p. 11 

4 



26 



• 

chiù miegliu invece del semplice meglio. Esso risponde al 
magis major di Plauto ( Men. ProL ) e al 6«>Ttov f*aUov dei 
Greci; e si riscontra parimente in altre lingue neo-latine, 
avendo la spagnuolà mas mejor, la provenzale pus melhor^ 
la francese popolare plus m£illeur (Diez). 

3. Le forme Dossessive ma, ta, p. m£us, meaj tuus, tua^ 
unite come suffissi ai soli nomi comuni di persone strette 
da rapporti di famiglia: patrima, mxitrìmxi, fratima^ suor- 
w£Ly suocruma, muglima o mughierm^, putrita, mammata, 
fratita, suorta, ec. Il Diez le indica come forme anticjuate 
più prossime alle latine, e viventi ancora in alcune lingue 
neo-latine. GV Italiani che V ebbero nei primi tempi della 
loro lingua le abbandonarono. 

4. Bellu, in Cellara, ha il significato di molto, assai j in 
espressioni come queste : sta bella grassa, bella allegra, bel- 
la commodu, cioè molto grasso, molto allegro, molto agiato. 
Il bella si vede che corrisponde al bene. Parimente male ha 
la forza di accrescitivo in queste altre: male ti pirrupasti, 
male ti 'ncavunastij cioè facesti grande caduta. Questi mo- 
di di dire erano propri de' Latini , trovandosi in Cicerone 
(ad Att.), litterae bene longae; non dubito quin me male 
oderit; in Prudenzio, male pertinaXj come si può rilevare 
dai Vocabolaristi. 

5. Il pronomen reverentiae, come è detto da Diez. H Ca- 
labrese con chiunque parli, senza distinzione di grado, usa 
sempre il tu dei Latini, e quando vuole usare una parola 
di cortesia, si presta dall' italiano ora il vui ora il Vussi- 
gnuria, ma nel discorso difficilmente la distacca dal suo 
tu naturale; onde spesso avviene di sentire, Accillensa tu, 
Vussignuria tu. Cito a proposito due graziosi versi di un 
Sonetto del Poeta Calabrese L. Vetere (v. §. 8.) : 



BuoQu truvatu duce maritiellu, 
Tuni VussigQuria cuomu me stai? 



Il daco-romano, che è pure un ramo della famiglia neo- 
latina non ha che questo solo modo d' interpellanza per la 
2* persona: colà vi si dirige all' Imperatore, dicendosi: Me- 
ria ta, cioè Maestà tua, anziché Vosero— (Diez). 

OssERVAZ. Le parlate Calabre non hanno forme di futu- 
ro, in luogo del quale si fa uso del presente : viegnu crai, 
parta lu mise che .vene, quannu moru lascia la roba; nei 
quali detti viegnu, parta, vene, moru, lascia, stanno per 
verrò, partirò, verrà, morirò, lascerò. È carattere delle lin- 
gue popolari, giacché mancandovi V arte che scuovre e fissa 
le minute gradazioni del tempo , il futuro , come osserva 
Bopp, avvicinandosi sempre al presente facilmente col pre- 
sente si mesce e confonde. 



— 27 — 

$.32. Tutto ciò che può aver riguardo alle preposizioni, 
agli avverbi, alle congiunzioni, o alle parole denvate e com- 
poste sarà notato, ove occorrerà il luogo opportuno, nel cor- 
so del seguente Catalogo. 

OAtailog^o di parola 

1.® — PAROLE GRECHE 

§. 33. Aft^ modo affermativo enfatico (Cosenzaj col quale si 
risponde a una interrogazione. Si pronunzia con suono ten- 
dente al nasale. In Cellara, dani, col ni paragogico (J. 21): 
illu è vieru stu fatta che cuntanu ? — aa , [è vero questo 
fatto che raccontano? — Sì sì]. Si confronti con la parti- 
cella greca perispomena ti e segnata con lo spirito aspro, 
la quale ha lo identico significato, e si ricordi la varietà delle 
opinioni sul suono della lettera >j, e il suono stretto quasi 
nasale dell' aa calabrese. 

AbragatUy rauco. È un chiaro derivato di /Spàvxos (rauce- 
dine), con r a prostetica (§. 21). 

Afeòrittare, abrustolare, abbronzare, scottare — da^prTstv, 
2* forma di ^puVetv, col facile e naturale scambio de' suoni 
labiali y in 6, e con V a prost. (%. 21). 

AbrumacatUj nutrito, m Rogliano; in Belvedere si usa 
solo parlandosi de' bachi da seta ; in Marzi ridotto in ab- 
burracatu. Si rapporti al verbo (Spwdxw e al nome (3p&)f*a. 

Amunij agnello — «pò», in alcuni luoghi : in altri àvunt, 
àguniy auni, che rispondono meglio alla forma latina agnus. 

Angarey aprire. Lo Scapula ne' suoi Temi anomali e poe- 
tici de' verbi, sull'autorità di Esichio, dice: àVicaXov, sta per 
àvoigov, imperativo che suona apri. È un avanzo di verbo 
greco perduto. Da questa fonte sono provenute le altre due 
voci seguenti. 

Anghiale e vucc-angatu, babbeo, persona che sta con la 
bocca aperta, essendo questa un' attitudine propria de' sci- 
muniti. 

Anìmulu, arcolajo. È voce traslata proveniente da av«po«. 
Vento, bufera; e si disse così (con la desinenza diminutiva 
come avvenne a tanti altri nomi, §. 28.^ , dal moto turbi- 
noso che fa 1' arcolajo nel dipannare la matassa; come ap- 
Sunto la trottola o palèo conico dei fanciulli si disse turbo 
ai Latini, e trochus (da rpiXstv, correre) qualùnque cosa si 
faccia girare intorno. La quale ragione è tanto chiara che 
la voce pt\t.pfil ha il doppio significato di palèo fanciullesco 
e di turbine di vento. Nel ^r. barbaro si ha regolarmente 
avjfxr, da Du Gange e Meursio interpretato girgiilus^ che è 
l' arcolajo. 



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— 29 — 

itre^ in Gastrovillari e altrove diconsi i grossi chiodi coi 
si aflftdano alle ruote de* carri i relativi cerchi di fer- 
- xsvrpov, pungolo. Di là 

ntrilli e centriglie^ che sono i piccoli chiodi usati dal 
)lajo per fortificare i talloni delle scarpe. La differenza 
nella torma diminutiva. 

eramtluj tegola — xtpafiwTa acc. , e ceramilaru il costrut- 
' di tegole (xtpofisuff). 

ChiàncuUij trappola per gli uccelli, per lo più formata, di 

nini intessuti a cancello. Vi si vede il xtVxXU, in origine 

-jiOLiiSj grata , cancello. Si dice perciò anche catreia (da * 

ates) e cannùzu da canna: quando vi si fa uso della pie- 

ii è detta petràngula. 

ChiattUy grosso, ampio; e dicesi propriamente dell' uomo 

degli animali — ^Xaru» (U w> in c/i , v. §♦ 16). Da chiatta 
i fece il verbo 'nchiattare, ingrossarsi. 

Ciumare, sonnacchiare, in Carpanzano, Rogliano e al- 
trove; cimare in à. Giov. in Fiore — xot|jta-o-p.at, prendo son- 
no, dormo. 

Cona e conicellay dicesi in più luoghi della Calabria una 
edicola con immagine sacra dipintavi, e che si vede spesso 
ne' crocicchi: et-icova, figura, immagine. 

Contraj guidalesco — nel gr. barbaro xovrpa, piaga ( Du 
Gange ). 

Copanata, percossa — V effetto del xowavov , oggetto con 
cui si percuote, dal v. xotttmv, percuotere. Di là il verbo co- 
paniare, percuotere, e per traslato in Carpanzano battere 
costantemente col pensiero in una cosa. 

Capare , mondare un albero recidendogli i rami inutili , 
in Albidona: dallo stesso xo^tsiv che suona pure recidere. 

CrisummulUy albicocco — Xpuffo^ToXov , frutto col colore di 
oro; secondo Plinio e Columella una specie di pomo cido- 
nio dall' aureo colore. 

Crozza generalmente, cataro zza in Gastrovillari, capo — 
jtopffa con la pronunzia dorica p. xopdA, e con la metatesi del 
p> fra i vari significati ha pure quello di capo. Intorno alla 
seconda voce catarozza^ con la caduta della e in mezzo, è 
a notarsi eh' essa è composta dalla preposizione xari , la 
quale in composizione spesso ha forza intensiva. E ciò si 
fa più manifesto nelle altre parole Calabre, catanannu il bi- 
savolo; catapiezzu un pezzo grosso detto per traslato di un 
uomo che si eleva su gli altri per forza intellettuale, mo- 
rale o fisica; cataforchia e caforchia^ una buca larga e pro- 
fonda , covile e ricovero di animali. Metti a confronto le 
voci italiane cataletto ^ catafalco (grande palco). 

Cruopu e crupa (Gastrov.), letame — xoTrpos. 

Cucia, dicesi il grano boluto preparato nel giorno festivo 



i 



— 30 — 

• 

del Santo patrono del villàggio per distribuirsi ai poveri. 
La costumanza ha il suo riscontro con V antica festa delle 
fave in Atene, con V orzo usato dai Greci nei sacrifìci e 
con la mola salsa dei Romani; però la parola cucia in Ca- 
labria fu introdotta col loro rito cristiano dai Greci del me- 
dio evo, e risponde al xouxia o xouxbv = Ayo^os fava, nel lin- 
guaggio greco barbaro (Du Gange e Meursio). L' uso del 
;rano, fave e altri legumi bolliti è rito delle feste cristiane 
Le' Greci, e nel loro libro delle preghiere (euXoXo7iov) vi è 
la relativa preghiera: evXri us xouxtv aVtóv, «uXu twv xoXv^wv. A 

?[uesto fatto si rapporta V uso del panatasimu (pane azzimo), 
atto di farina ammassata con acqua infusa del succo di 
ceci messivi in una pignatta nuova per ammollirsi : in Acri 
e Celico, pittatasimu. 

CuccUj cuculo, lat. cuculus, e ne' bassi tempi anche cu- 
cu8j secondo Isidoro di Siviglia (XVII, 7): la forma però 
è interamente la gr. barb. xouxxos (Du Cange^. 

CucunUj il femore : xoXwvi?, la commessura della coscia. 

Cucuvella e cucuveddaj civetta: gr. barb. xouxoupaVia (Du 
Gange). 

Cullacciuj in Acri e altrove , pasta di farina intrecciata 
a corona; nel Gosentino una treccia fatta di fichi, e la torta 
composta degli avanzi della pasta da pane che si cuoce 
nella cenere. Il gr. barb. offre xonixtov, che Ateneo inter- 
preta species panis rotundi vel subcineritii; xo>Utov, joams ro- 
tundus ac in coronae modum contortus (Du Gange). Una 
trasformazione di xo>.txtov pare che sia V altra parola cuculuj 
usata solo nel Gosentino, in Acri cucudu, e che ha iden- 
tico significato: dicesi particolarmente delle torte di Pasqua. 

Culluru e cudduru, vale lo stesso che cullacctu e cuculu; 
nel gr. barb. xo)»oupt, piccola focaccia o cialdetta ad uso dei 
bambini. 

Curallu e chirillu : con queste voci la contadina calabrese 
del Gosentino suole chiamare il suo porco quando lo invita 
al truogolo o al porcile : spesso tronca la parola, come av- 
viene in generale ai casi vocativi, e dice chini chiri quando 
trattasi di un porcelletto , cura cura quando di un porco 
grande; in Acri chir chir, chiril chirìlj in Albidona ni-ca^ 
riellu. Confrontale conxotpoff e Xoipi^Lo^^ porcello e porcelletto, 

Curina e curinUy la cima di un monte, di un albero: xà- 
piQvov, testa, capo, cima, vertice di monte. 

Curmu, fusto dell' albero: per traslato si dice di un uo- 
mo di grande corporatura, chi curmu d' uominu ! — xopfio*, 
un pezzo del tronco. 

Curtaglia, in Celico, Spezzano, Manneto, ec, steccato per 
raccogliervi le pecore; m Aprigliano, concime. La parola 
cU origine è ;:opTos, cortile o recinto pel bestiame : il concime 



— 31 — 

in (questo caso suona ciò che si raccoglie nel Xopros. Gli 
Apnglianesì però hanno il verbo accurtagliare , che vale , 
piantare de^ pali ad u$o di steccato. 

Cuzziettu^ occipite: xorWa, acc. di «otW, occipite (mutata 
la Mn 5 o ^, %. 17). Di là ^ncuszittatu nel senso òìpieno^ 
ben nutrito. 

Deda: nel Cosentino dicesi il legno resinoso di che la 
gente fa uso per accendere il fuoco e il povero per illu- 
minare la casa in luogo di olio. Il significato risponde me- 
glio alla taeda lat. , ma la forma sta più vicina alla parola 
greca di origine ^au^a p. contrazione (Ja<Ja, fiaccola, tizzone. 

Èrramu^ smarrito, ramingo; e si usa per lo più nelle im- 
precazioni : chi ti viadi èrramUj che possa andare ramingo ! 
tpìiftoSj (con la pronunzia dorica), deserto, abbandonato, .ermo. 

Fanarusu, in Rogliano , fanojo in Malvito , uomo largo 
nello spendere: yovapos, splendido. 

FullunCy nido, tana, covile : ^w^io» ha lo stesso significato 
(col suffisso accrescitivo italiano). 

Ganga, dente mascellare ; gangale, mascella. Si riscon- 
trano nelle due voci greche dello stesso significato Vap^ai e 
in Esichio ifa^j^fulai (mutata la labiale ^ nella gutturale gf, §. 16). 
La [A innanzi la y ci richiama alla notissima legge fonica 
greca della v mutata in p innanzi le labiali, e il suono i? al 
rispondente suono dorico a, onde così riducendole quelle 
parole avrebbero la forma 7av7Ai, sing. 7av7a, e 7av7a>at. 

Gnogna, gnògnara, gnìgnara, gnéqna, mente, intelligen- 
za, cervello. .In tutte queste forme il Filologo vi ravviserà 
chiaramente il tema 7vw = lat. gnoy in l^ta-^Liì, gnotus, co-gni- 
ito, con la ripetizione enfatica e stroppiatura sì facile nel 
linguaggio popolai*e. Di là provenne i* altro vocabolo ma" 
gnògnaru, che vale uomo sapiente, di gran mente, astuto. 
Si noti in ma-gno^naru il prefisso ma che ne accresce il 
valore: esso ci richiama all' antichissima radice primitiva 
in ma-hat sanscrito, jt-cfioL e fz«7a5 gr., ma-gnus lat., voci 
tutte che suonano grande, molto. In Acri gnìmaru p. ma- 
gnognaru. 

Grasta, vase di terra cotta, particolarmente per piantarvi 
fiori. In greco si ha Hounprì e younf^a. per ventre del vaso, la- 
tinizzato da Petronio (70 e 79; in gastrum. Dicesi pure così 
un frantume di terra cotta qualsiasi, di mattone, di embri- 
ce, ec. =^ it. coccio, e per questo risponde pienamente alla 
"voce lat. testa, it. testo, che a sua volta ha r istesso valo- 
re di grasta. Fu usata anche dal Boccaccio. 

Grisara, vaglio, in Cosenza, Lattaraco, ec. — x^/Odipa, an- 
che vaglio. In Corigliano gligliara , che parmi ne sia una 
stroppiatura; in Acri e Cariati rigliara; m Manneto, Celi- 
co, gìiara un cesto col fondo a crivello. 



» 



— 32 — 

Grulla, in Albidona, il sottoscala che nelle case dei vil- 
laggi o di campagna serve spesso di ricovero al porco. Si 
rapporti alla voce ypviy.os porco nel greco barb. , secondo Du 
Gange (u. 7oupovv), e al verbo 7puUic«tv grugnire nel greco 
classico. 

Jerstty terreno sterile: Xtfxro^i/n, terreno che non si colti- 
va e si abbandona, suolo deserto ed aspro. 

Jetta e jettula, treccia, serto di fichi legati a treccia , il 
nastro o trena con che le donne si legano i capelli. La vo- 
ce Xaitr, propriamente suona chioma 8oolaz:iante^ ma in sen- 
so largo risveglia pure la idea di ciò che vi si annètte ai 
capelli. Di là il verbo 'njettare, intrecciare. 

' Lelizzare , in Albidona , parlare motteggiando. Sarebbe 
derivata da una seconda forma di >a>.c8tv essere loquace, 
oppure da ^>4t«tv parlare fortemente. 

LémparUf lo splendore del forno quando arde o una gran- 
de fiamma qualunque: XafXTrpos, splendido, fulgido, fiammante. 

Lobba e lobbia, mantello e (qualunque panno con cui si 
cuopre una persona: Xwtttq, vestimento o involto, mantello. 

Lollo, in Amendolara, sciocco, stupido, inetto. Nel gr. 
barb. il Meursio nota ).ft>).o5 stultus, donde ).w>àpa stultitta. 

Majilla, in Cosenza, Corigliano e altrove, madia: fia7i<J« 

aCC. di pa7tff. 

Mashcu, ascella, in S. Marco, Rota Greca; mashcuìu in 
Cassano, Roseto, ec. — suttu lu mashcu, sotto l'ascella: fta- 
(rX£ktì ascella. Dalla stessa fonte ha dovuto provenire 1' al- 
tra parola mushcu , in Celico mushkiu , la parte convessa 
superiore del braccio, mentre la prima ne mdica la -parte 
concava interna. Per ascella altrove si ha titillu. 

Maza, in Longobucco, pane di orzo: pta?a ha la identica 
forma e lo identico significato. 

Melise , diconsi le noci facili a rompersi, ad aprirsi in 
due parti, come le opposte diconsi mashche: f*epiCetv, divi- 
dere, separare. 

Meru, dalla parte di, verso: meru lujume, lupajise, la 
citate, dalla parte del fiume, del paese, della città — f*eposr, 
parte, quasi aito tou /«pou, togliendo la preposizione e 1' ajv 
ticolo. 

Miccu, mtccariellu, propriamente un corpo piccolo ed e- 
sile : fAtxxocr usato dai Dori in luogo del comune ptxcxxr (la 2.* 
voce col suflBisso diminutivo). 

Mirizare, col suono ?, in Albidona, odorare; in Roseto 
murizare: fAupt?etv, spargere mirra, unguenti, odori. 

Mommu, mximmunu, mammarutu (con la m e iniziale e 
media rinforzata), fantasma, f^pauracchio de' bambini. Sono 
evidentemente forme dell' attico fiop/xciv, wvos, che vale spau- 
racchio, fantasma, fantoccio immaginario in figura dì don- 



— 33 — 

na, col quale solevansi atterrire e ridurre al sUenzio ì fan- 
ciulli; e pare anche del siculo pi4»fxap, sciocco, fatuo, nel lin- 
guaggio dei Comici,' rispondente al maccus àelle Atellane, 
personaggio sciocco che co' suoi strani contorcimenti del 
corpo e particolarmente della bocca e della voce dovea 
certo fare paura ai bambini. 

Mpede (aw.) ai piedi, nel piede : mpede alV arouri, a pie 
dell' albero — «uttoJwv, quasi tv woo-t, ne' piedi, avanti i piedi. 

MùltcUj molle, in Longobucco: f*a).«xo5, molle. 

Murgta, roccia, catena di pietra: wv^viov diminutivo di irOp- 
7os, luogo fortificato, riparo, bastione (le labiali/) e 6 si mu- 
tano in m, §. 16). Le prime torri degli uomini furono le 
rupi, onde le altre voci a-Afta o ayipis cima di monte e apxo» 
riparo, lat. arx, arceo. Da trvpVod i Latini della decadenza 
fecero burgus, donde borgo gl'Italiani. Leggesi in Vegezio 
(De Arte Milit.): castellum parvum quem burgum vocant, 
parola poco usata dopo e detta volgare da Isidoro (Diez, 
T. I. p. 8). Delatre ( Vbc. Germ.) lo dice vocabolo germanico, 
burg; ma se Vegezio nel quarto secolo cristiano parlava di 
burgus, e vi è ir^pios in greco, perchè non trovarne la ori- 
gine in un' antichissima fonte comune? 

Murra, una moltitudine di uomini, frotta;. ma dicesi con 
più proprietà degli animali: f*opa presso i Lacedemoni era 
una parte dell' esercito, un distaccamento di soldati, lati- 
nizzato da Cornelio Nipote (in Ificraté), mora. 

'Ncriccare, torcere. Si dice propriamente del mustaccio 
quando si torce ed acconcia per dargli una forma curva. 
Se ^ncricca lu mustazzu , dicesi di un uomo che per moto 
di sdegno si agita maltrattandolo in segno di rabbia e di 
minaccia. Il greco offre xpi/oj , secondo Polluce , lo stesso 
che xux>o«, lat. circus, e il verbo xtpxow in orbem duco, usato 
da Eschilo nel Prometeo ( Vossio, v. circus). In Calabria 
si trova pure il verbo opposto scriccare nel senso di disfar- 
ne la tortuosità: se 'ncricca e se scricca lu mustazzu, 

Ncrozzarsi, ostinarsi: da crozza, capo == xop<ra (v. Croz- 
za, p. 29), come gì' Italiani da capo fecero ncaponire, da 
testa tester eccio, 

Nudena, nulla, in Longobucco : vi è 1' ov<y«v in tutta la sua 
fisonomia con la n prostetica, che pare prestata dal nul- 
lum latino. 

Ngutta, nguttUj cuttu, vicino, in vicinanza, presso a: 
fVVudt, ridotto ^lla forma lat. enguthi, ha gli stessi signifi- 
cati. Dicesi pure nguttu per fitto, denso; e parlando di tem- 
po significa imminente, subito: è nguttu a vinire, sta per 
venire. E poiché la idea di vicinanza, joresso a, porta 1' al- 
tra di strettezza e quindi pressione , la voce nguttu si usa 
anche per stretto: sicché in Cetraro e altrove si usa per 

5 



— 34 — 

pauruj rispondente alla it. stretta, onde i modi di dire, da- 
re la stretta, essere alle strette. Il Bopp (Gto«. campar. Ling. 
sanscr. v. anhù) a *77u«, donde fVVvJi, rapporta illat. angw- 
stus^ e quindi V altro modo ital. essere tn angustie. 

Palmidia , nel CastroviQarese , racconto immaginoso di 
fatti antichi, Tavoletta, {rumanza nel Cosentino). La veggo 
composta da wa5iato» antico e fAu©o5 racconto, quasi 7raXaia-f*v- 
©ta, e poi più corrottamente pal-midìa, con la stessa legge 
ond' è formata. Trapa-ftuSta, xonto-OuiAta , fAaxpo-dufAta ,,ec. L' anti- 
chità dei fatti immaginari si rilèva dalla formola d' uso con 
la Quale si dà principio al racconto : e' era na vota cuma 
si aicissij e' era una volta, come a mo' di dire, un re, un 
gigante, un orco, ecc. 

Panurgusu e panurfusu , in Cellara e altrove , scaltro , 
malizioso, furbo, litigioso, amante di sottigliezze: ttovou/ìVo» 
ha gli stessi significati. 

Paparina, il papavero selvaggio che nasce nelle campa- 
gne: gr. barb. irocnapovva (Du Gange). 

Pàraspuoltt, dicesi nel CastroviUarese, dove è V uso, una 
parte del ricolto delle biade che spetta ai coloni su i ter- 
reni seminati dei loro padroni; in S. Marco un pezzo di 
terreno che il proprietario dà in usufrutto annualmente ai 
coltivatori de* suoi campi. Nel gr. classico Ttaputritupevj vale 
seminare vicino o presso ad un altro^ nel gr. barb. napatmopia. 
è interpretata da Du Gange peculium castrense. In Amen- 
dolara la voce si è modificata in panespuoriu. 

Paxjune, paxjulune (Mar. Princ. ) , paccune, pacchiune 
(Carpanz. Aprigl.) grosso, paffuto: TraXuff, modificato col suf- 
fisso accrescitivo italiano. 

Pede cata pede e anche solo cati cati (Gosent.), si dice 
propriamente di chi cammina avanzando un piede lenta- 
mente dopo dell' altro per giungere 'in qualche luogo sen- 
za che alcuno se ne accorga, e perciò suona anche ada- 
gio ^ pian piano , a poco a poco, in S. Sisto corre questo 
proverbio rispetto alla donna : pede cata pede buona marita 
mene, cioè V andare adagio ne^ matrimoni apporta un buon 
marito, simile all'ital. chi va piano va sano. È chiaro il xara 
Ttoiac dei Greci = pedatim dei Latini. In Celico-Manneto si 
ha pure nello stesso senso, pede sum^ pede, e una sun' unu; 
la quale ultima espressione è comune con Aprigliano ed 
altri villaggi di questa regione. In Montalto corre questo 
altro proverbio : urìu sun' unu non rimanebit unu , per in- 
dicare che r una dopo V altra non rimarrà creatura viva. 

Picchia, omento. Si riscontra con e-7rt7r>o-ov, che nel lin- 
guaggio della medicina vale appunto omento — Il gruppo 
7r>==pl, ne' dialetti calabresi mutasi in eh, Tr^aruff, chiatti^ 
(§. 16), e quindi nnvlo=picchiu. 



— 35 — 

I 

PiUu e pillai terreno fangoso : TttìXos fango, melma, palu- 
de = lat. patos. Da pitta il v. ^mpittarey infangarsi, impan- 
tanarsi, (ttu^ow) accanto all' altro ^mpattaccare e il nome/)a- 
lacca, melma, che derivano da irakour^^, in orìgine irakSoLw^ 
imbratto, insudicio. 

PitignUj pianta, stirpe: essere di mala pitigvu, vale esse- 
re di cattiva razza, cne si dice e delle piante e dell' uomo 
moralmente considerato — yvrov, pianta e stirpe, col suffisso 
tov (8. 28). 

Pittay focaccia. Nel Glossario gr. barb. di Du Gange si 
legge : wira, wura, Trtrta, placenta in modum laminae confecta. 
Di là r it. pizza. 

Placca (Albid.), tavola di pietra, piastra: iù.<kml acc. dì 

Prèvite, prete : la forma si avvicina più a npefrp^rns che 
al lat. presbyter. 

Puaeja e pudia, in vari luoghi della Provincia, paria in 
Cosenza e casali, dicesi la fìmbria od orlo estremo della 
veste da donna: 7ro<yewv, da novs, vale gherone, étriscia, lembo. 

Recata, in Pietrapaola, panno di trama leggero e debole. 
È un derivato di paxo*, abito lacero, cencio, stnscia di panno. 

Rocchia, cespuglio : dicesi pure di qualsiasi parte risal- 
tante in un oggetto esteso , nspondente al macula lat. — 
pelle a rocchia a rocchia è lo stesso che pelle maculata , 

Sicchiettata — ^wTrfliov (mutata la n in e, §. 16), luogo pieno 
i cespugli, spineto, macchia. 

Ruga, viottolo. Neil' Odissea (L. 22. v. 143) si legge: «va 
p«7as f«7apow, chc s' inìer\)veì8i, per ^li angusti anditi del pa- 
lagio; nel gr. barb. si ha pouVa = vtcus, platea, secondo Du 
Cajige. In Pietrafitta si dice ruojulu, certo da ruga, un viot- 
tolo stretto per lo più fra balze e burroni. 

Rùmbulu e rùmmulu, oggetto rotondo e quindi ciottolo, 
onde il verbo arrumulare = rotolare: popt^oo-, ogni oggetto 
di forma circolare, passato ai Latini in rhumbus. 

Sbanu , uomo senza barba. Nel gr. class. (/Travioor raro , 
poco , mancante ; nella lingua dei Bizantini anoLvoa è inter- 
pretato, cui rara est barba = (nravoTrosywv (Du Gange). 

Scaliaré, ricercare, scrutare. È un traslato di o"xaX).«'4v sca- 
vare, dicendosi dai Calabresi, scavare nu pinsieru, nu se-- 
grietu, na parola, nel senso di scrutare, scovrire un pen- 
siere, un segreto, una parola. 

Scigare, stracciare, lacerare: da o-Xi^w, io spacco, fendo, 
in origine <TXtj3j^, per la nota legge fonica del e =^ «J/, e col 
dileguo del ^, come in ?u7ov = (y/yVov =» jagram lat. 

Scinu, lentischio (Altomonte): aXivoer, lat. barb. schinus. 

Shcutu, gufo, in Aprigliano, schiutu altrove, <rxw4», «ttoit, 
civetta, gufo. 



_ 36 — 

Scrufialmnij diconsi in Malvito i vermi che strisciando 
nello staobio vi lasciano impresso mi piccolo solco: 9xapif>«uetv 
solcare leggiermente. 

Sgogna^ nel Castrovillarese, un angolo di casa, un punto 
qualunque segregato : Vwvta, angolo, luogo nascosto (con la 
s prostet. §. 20; — nel Cosentino scasogna^ forse derivato 
di cnttaSitv (rendere oscuro), angolo oscuro. 

Sima, segno che lascia una ferita sul volto: a/iiLa. Dalla 
stessa fonte, ridotto a forma diminutiva crìQpiaTiov, provenne 
r altro vocabolo simita, che in Aprigliano vale segno di ras- 
somiglianzi . 

Spàr^anu in Rossano, spràqanu in Corigliano, fascia per 
bambini e anche la pezza o il panno in cui si rinvolgono 
i bambini in fasce: <j7ràp7avov, fascia. 

SpinnUy ambascia che si prova pel desiderio intenso di 
un oggetto amato che è lontano, lo splen, che dicesi comu- 
nemente, e in rapporto alla patria nostalgia. È lo anlrtv milza 
(col dileguo del >), viscere in cui ha sede V umore melan- 
conico, come ypijveff i precordi, onà^ frenetico , frenesia ^ e 
Gir'kd'ìfXvov viscere, cuore, affetto. Altri potrebbe rapportarlo 
a TTsiva, desiderio vivo, focoso. 

Spinsu (nel Castrov. , Scalea) fringuello: aTrivoy. Si dice an- 
che per traslato di un uomo di bassa, macra e sottile persona. 

Spuria, dicesi la zona che si apre fra due solchi in un 
terreno destinato alla seminagione del frumento per rego- 
larvi il getto della semenza: o-Tropoo- e cizopà seminagione. Si 
dice pure così (Ajello, Mendicino, ec.) un pezzo di terre- 
no petroso, ombroso, difficile a coltivarsi; in origine forse 

a-Spurìa (a-anopr^). 

Stqfellarlay in Corigliano dicesi la traversa superiore nel 
torchio da mosto, che si abbassa con violenta pressione 
per ispremervi il sugo delle vinacce sottomessevi. Vi si 
vede il rapporto con o-Tejx^u).» , vinaccia calcata = brisa di 
Columella, come notano i Lessicografi. 

Staffala, in Scalea, il picciuolo di una mela, di una pera 
o di altro frutto simile, e anche il torsolo cartilaginoso di 
quelle frutta, che si getta via, mangiatane la polpa; cioè 
la parte del frutto arida e senza sugo. Anche in questo 
vocabolo si vede lo <jt6/i^u>ov graspo, oppure (rrayL(?a acc. uva 
passa, che dall* uva ha dovuto trasportarsi per naturale af- 
finità ad altre frutta. 

Stazza, ovile: o-ràTt», stazione, luogo di dimora = lat. sta- 
tio, stabulum. Da arùTis provenne il derivato (TTaTtwpov, che 
suona appunto ovile. Sarebbe V altra parola calabra sca- 
riazzu una storpiatura di aracritapovì 

Stierru, in Albidona stiernu, dicesi di un vecchio matu- 
ro che resiste ancora al peso degli anni — viecchiu stierru 



— 37 — 

e stiernu: (rrtppwr attico p. <jTtpioo-, solido, fermo, ritto. In 
S. Sisto, tirru tirru dicesi di un uomo che cammina ritto; 
in Grimaldi tirru la trottola quando nel suo impeto vor- 
ticoso sta ritto sul perno, e pare immobile, fermo. 

Stifagnu , in Acri e Bisignano , stufagnu in Corigliano, 
cercine. In altri luoghi si dice curuna^ dalla forma appunto 
del cercine che è a corona. È forma tutta greca (rT«yaviov, 
(diminutiva (§. 28.)^ di (TTf^Kwo*, corona. 

I^ùmbulu e stràmmulu , trottola , palèo , lat. trochus e 
turbo: (rTjDopL|3o<x e (rrpo^iXotr hanuo lo stesso significato. 

Surigha^ in Castro villari, lucertola : tra-jpa col suffisso di- 
minutivo i).>iov darebbe aaxjpOliov. Da o-aupa, m. aaxjprjtr è pro- 
venuto V altro vocabolo anche in Castrovillari salavrune, 
benché molto alterato, che vale ramarro. 

Tabanu, propriamente manto di pastore, e manto vec- 
chio: Tr.j3ivo« abito, e anche la toga e la trabea dei Romani. 
GP Italiani alterandone più largamente la forma ne fecero 
tabarro. 

TcffagnUy buca o grotta oscura, sudicia, puzzolente: si 
dice anche di una casa bassa, sporca, senza luce e di una 
aria fetida. È un traslato di ray-ss o rayr, tomba che con 1' « 
dorico e suffisso tov (§. 28) sarebbe ridotto alla forma ra^a-vtov. 

Taraca , strato di moccio o altro sudiciume in qualche 
parte dell' abito, diseccato ed indurito; abitu ntaracatu = 
sudicio : tapiXos , la cosa inaridita , diseccata. Di là 1' altra 
parola targia, crosta. In Acri taracuj uomo sudicio. 

TacutUj bara. Vi si vede nella parte principale della pa- 
rola il rayoff, sepolcro. 

TiganUy tegame : -njVavov in tutta la interezza della forma 
grecr . 

Timpa, timpune, trerma^ rupe, luogo scosceso: Ts/*7rs« e 
TfpiTrfl erano dette dai Greci dell' evo posteriore le strette 
dei monti ( Du Gange ) , secondo Suida i monti di questo 
nome nella Macedonia e nella Tessaglia. Trovo poi in al- 
tro luogo di Du Gange : roupTres = tumbae^ tumuli, colles. Vi 
è sempre la idea della rupe e del luogo scosceso. Trempa 
è chiaramente un' alterazione di timpa. 

Timpagnu, fondo di botte o di barile; inoltre il coverchio 
di un vaso, 1' asse ad uso di cucina dove si prepara, si 
spiana e si assottiglia la pasta. Vi si vede chiaro il traslato 
preso dalla parte piana del rv^Travov, dimin. ru^xTraviov. 

Timugnaj bica: nel greco classico 6>3/awv, mucchio di og- 
getti; in quello della decadenza e^cfAwvta, che Suida interpreta 
acervi manipulorum. 

Tiringu e turingu, nel Cosentino, cacio: tuoos e ruptov. 

TitUy in Longobucco, piccolo, r-jT^oa, ancìie piccolo, 

Tr appare, premere con la mano, toccare premendo, pal- 
pare: TpaTTdù), io calco. 



— 38 — 

Trupìa e tropèa^ tempesta, uragano : rptncam (mùv) dicasi 
dai Greci il vento che aal mare si getta con violenza so- 

Ei terra, produttore di tempesta, onde i venti trcpaei dei 
tini. 

Tuppitiare, battere: tvit-t», batto; Tjniroa percossa. 
Unghiarej gonfiarsi: o7xow e otxo'^^ gonfio, e mi gonfio. 
VosimUi in Serra Pedace e altrove, odoratoj JitUo^ prò- 

Srio del cane e del gatto; ma per traslato si dice anche 
eli* uomo: avire V uosimu per presentire o avere il senso 
di una cosa lontana — oo-ptvj (con un t epentico), odore, e 
anche il fiuto dei cani, come sta in Senofonte {Cir. 1. 6. 40.) 
Uxjt, è voce del contado apriglianese, di che si fa uso 
per eccitare il porco ad andare nel porcile. Vi si vede lo 
oiX««, che suona ra, imperativo del verbo oiXe», vado (1). 
Vastasu (la 8 da pronunziarsi col suono ?), facchino: et 

Paorajovre», facchini. 

Vattalaru, ciarliero: da P«tto>o7««, ciarlo di cose inutili. 
Si ha dalla stessa fonte il verbo vattaliare nel senso di 
ciarlare, e alterato in tatalliare, tatameUiare ^ catalUare: 
questa ultima voce in Cassano vale, attirare una persona 
con ciarle. 

Vaula e vavula, ovile: «u^a preceduto dal digamma (8. 20, 
lat. caula), ha lo stesso significato. 

Vrbtìcu in Castrovillari, vutracchiu in Cerchiara, Amen- 
dolara, vurracchia in Rocca Imperiale, Canna, ec, ranoc- 
chia: ^rpaXorr, c il SUO naturale diminut. /darpoXtov. Di là in 
Rogliano votracusu per malsano, un uomo d^Jla pancia gon- 
fia e colore pallido come il ranocchio; altrove abbutracatu 
e abbutraxjatu (a prost. $. 21). Nel num. plur. si ha ero- 
caci (lab. m guttur. $. 16), in Altomonte, Malvito, ec. ; nel 
quale ultimo villaggio sogliono così chiamare per disprezzo 
gli abitatori di luoghi paludosi, con altro nome trippxcuotti^ 
cioè con la pancia floscia e forze consunte dalla malaria. 

VàmbulUj vùmbula,' vummulu, gummuluj in Oriolo am- 
mulu , propriamente vaso col collo stretto ad uso di vi- 
no, nel quale bevendosi dassi un certo suono rispondente 
al gr. Sofi^os = lat. bombus; ma si dice anche di qualsiasi 
vaso di creta da tenervi acqua e da bere. Da j3optj3o» i Greci 
fecero po^t^ycn = vumbulu calabrese ; e posteriormente j3o^- 
|5y>.to<r = lat. bombvUus, forma che si riscontra in gummtle 
nella parlata albidonese (v. $. 16). 

(I) Rifletta il lettore come questa ed altre simili voci dirette agli ani- 
mali, e le quali potrebbero credersi semplici suoni imitativi, hanno invece 
il loro riscontro in vere parole antiche, indicando esse o il nome dell' ani- 
male, F azione che all' animale si rapporta. V. Curàllu a pag. 30, Jw 
de, /, NsemiUa^ Siste^ Frèy ec. nelle Par. Lat, 



— 39 — 

ZUona^ jilona, xjilona ^ jidona ^ liona^ sono diverse for- 
me di Xi).»v^, testuggine (v. §. 18). 
Zimmaru, capro: ZtfA«po<x (v. ^. 18). 

2.® — PAROLE LATINE 

Abbacare, stare in ozio: staju abbacu= sto in ozio; non 
haju abbaca, suona il contrario, cioè, mi manca il tempo, 
non ho tempo a perdere, sono occupato. È il vacare (per 
r a prost. V. §. 20) co' suoi diversi significati. Si sente par- 
ticolarmente nel Castrovillarese. 

Abberdare in Cosenza e Casali, far conoscere, confes- 
sare: apertare frequ^ntat. di aperire, per trasl. scoprire. 

Addurmiscìutu, pret., addormentato: lat. obdormiscere, 

Addunare, accorgersi: da odorare (r in d, §. 19), anna- 
sare, aver sentore, traslato dal fiutare del cane. Le paro- 
le odore e odorare in alcuni luoghi di Calabria si pronun- 
ziano addure, addurare. 

Alare, sbadigliare: nel lat. barb. haleo, infin. halere. 

Ammalia, in Fuscaldo e villaggi vicini : è la schietta for- 
ma latina. 

Annu nel Cosent., Tanno passato: nello stesso senso tro- 
vasi usato da Lucilio e Plauto V ablat. anno. 

Arvisciennu e arrivisciennu, infin. arriviscere, sul far del- 
l' alba, spuntando 1' alba: albescente coeh, albescere. 

Asuliare, ascoltare e origliare. GÌ' identici significati offre 
V auscultare, del quale asuliare è certo un' alterazione, a- 
vuto riguardo alla primitiva forma lat. di auses p. aures, 
com' era asa p. ara, esq p. ero. Questo verbo si riscontra 
anche ^ nelP ant. parlata del Perugino con la forma osolare, 
ed oggi nello Avellinese con quella di aoselejare (Papanti, 
Pari. Ital. p. 43, 375). 

Atturrare e turrare, abbrustolare : torreo (con V a prost, 
8. 20). 

Axja, pustola, bolla, enfiagione: dal v. afflare {fin X, 
%. 16), soffiare, come le voci ital. enfiare, enfiagione pro- 
vennero da injlari, per la somiglianza delle onde o delle 
vele gonfiate dal vento. 

Axjitu, alito, fiato: halitus, con P aspirala trasposta. 

Aude e audi-te, in Diamante e altri villaggi del Pada- 
no, il bifolco dice ai buoi aggiogati sotto Y aratro per ec- 
citarli a tirare. Si riconoscono le forme imperative di Giu- 
deo, quasi espressione d' incoraggiamento. 

Bifaru, in Cosenza e altrove, il frutto del fico che si ma- 
tura dopo la raccolta; in Donnici, Aprigliano, ec. il secondo 
nato deUa pecora che si sgrava di due; in S. Giov. in Fio- 



— 40 — 

re, V agnello in generale : bifer e anche biferus suona, ciò 
che fa frutto due volte ali* anno. 

Bu e mbu Tper la m iniziale enfatica v. §. 21), onoma- 
topea dei bambini per dimandare a bere. È voce tutta la- 
tina come si ha dal noto passo di Varrone: quum cibum 
et potionem buas ae papas vocent parouli. Diez (T. I. p. 8;, 
soggiunge : questa espressione della lingua degl' infanti si 
è perpetuata nel genovese bu-bu e nel comasco 60-60. Si 
unisca a questi il bu e mbu calabresi. 

Cantglia, crusca. I Latini diceano eankae la semola di 
farro, perchè data in cibo ai c^ni: lo stesso va per cani- 
gUuj perchè anche oggi in Calabria vige lo stesso uso di 
dare la crusca ai cani da mandria. 

CarmUj oltre di essere V aggettivo it. calmo (l in r, §. 19), 
è pure la formola magica con la quale i Calabresi, per lo 
più le donne, hanno il costume e la credenza di curare i 
dolori. Nel Cosentino, dire ìu carmu, fare lu carmu, sono 
espressioni proprie del caso; donde carm^are ^= it. ciurmare. 
La origine sta nel lat. Carmen usato anche in questo senso. 

CattivUj vedovo: nella forma è tutto il lat. captious. La 
idea di relazione io la scorgo annessa alla cpnmzione del 
prigioniero di guerra, il quale comecché rapito alla moglie 
e famiglia, era privato, vedovato, di esse. Lo conferma 
r altro vocabolo jnente captus, privato del ben dello intel- 
letto, P it. mentecatto. In Du Cange però (^GZoss. m.'etinf. 
lat. arricchito dalle Aggiunte del Carpentario) si legge : ca- 
ptivus prò viduuSj privatus. 

Cerasa e cerasa^ ciriegio e ciriegia: cerasus e cerasum. 

Cernicchiu (Castrov.), crivello: incerniculum. 

Cerriglia, vaso per acqua da bere, in Cosenza. I Latini 
aveano ctmea, irnea, hirnca^ irnella per vaso' da vino o 
in uso nei sacrifici (Vossìo, v. Cirnea e Jrnea). Vi dovea 
essere cirnella diminut. di cirnea ^ come' irnella di irnea ^ 
e per assimilaz. fatta cirrella, da cui 1' attuale forma ca- 
labrese. È noto che nelle lingue romanze vi sono molte 
parole e forme di origine latina perdute nella lingua ma- 
dre (Diez). 

Cesa, ferita, cicatrice: caesa^ caesio. 

Ciavarra e eivarra^ nel Castrovillarese, beverone di cru- 
sca stemperata nell' acqua, che si dà per cibo particolar- 
mente ai cani da pecorajo e ai porci; ciavarrata, in senso 
largo per gran quantità di cibo. In Plinio (18, 9, 20) tro- 
viamo cibarium con questo istesso significato. In Varrone 
poi sta cibarius in senso di vile, plebeo, perchè la plebe 
romana facea del cibarium 51 suo pane. Da cibarius quindi 
r altra voce calabrese della stessa contrada, ciavarru, per 
uomo inetto e stupido, e forse il ;3avir e tavir in Albidona 



— 41 — 

e tamarru generalmente, per villanOi stupido, uomo da nulla». 

Cicèrcula, cicerchia: lat. cicercula. 

Cicurarej aver cura, accarezzare, prestare attenzione ad 
un oggetto: lat. cicurarej mansuefare. Vi è un altro verbo, 
cicultare , più espressamente per accarezzare , che credo 
un' alterazione dell' altro. 

Cierru, ciocca di capelli, bioccolo di lana, la cresta dei 
galli, delle galline e di altri uccelli: cirrus ha tutti questi 
significati. 

Cònula (Castrov.), cuna: cunulae, dimin. di cunae. È in 
uso colà anche 1' altra voce naca. 

Craif dimani: cras. Vi sono poi i composti: piscrai (po- 
sdomani), bis craSj in Acri proserai; piscridduy in Castro- 
villari (1' altro posdomani^, quasi bis-cras-ille-j piscruzzu, il 
quarto giorno successivo ai tre primi. Neil' antica edizione 
della Crusca stanno registrate come voci del Trecento , 
crai, poserai j poscrillijposquacchera, 

Crtstianu p. uomo. Questo fatto si riscontra in tutte le 
lingue romanze (Diez, T. III. 79), perciò anche nei Tre- 
centisti: era il più bel cristiano de* suoi tempi, V. pure Nan- 
nucci (Letter. I. 43.) 

CrivUj crivello: lat. cribrum. 

Crungiu, storpio, moncherino: truncus (t in e, §. 17). 

Crìtstulu, sorta di ciambella: crustulum. 

Cucumaj vaso grande di creta a due orecchie o mani- 
chi per uso di acqua; cucumella, una piccola cucuma. In 
lat. vi è cucuma e cucumella, che valgono lo stesso, donde 
forse anche il gr. xouxoufAoo-. 

Cuticchia, cutìcchiuy pietra liscia del fiume rotondata dalle 
acque , ciottolo : coticula , diminut. di cos , sasso e pietra 
molare. 

Di terza (Castrov. j, jeri l' altro: die tertio, il giorno terzo 
passato rispetto a queUo in cui si parla. 

Donna e duonnuy signore, sincopato di dominus^ nel lat. 
barb. domnus. È un titolo di onore dato nel Cosentino ai 
Sacerdoti : donna Pantu, donna Tummasu, tradizione della 
signoria ecclesiastica medioevale. Nel linguaggio della Chie- 
sa orientale il Vescovo è detto ^€<nror/ìiT = dominus. 

Dulare (col d dolce^, sgrossare un pezzo di legno, liscia- 
re, levigare: in lat. dotare ha lo stesso significato, donde 
il traslato ital. a-dulare, lisciare moralmente con parole lu- 
singhiere chicchessia. 

Duoioiellu e vielli (Cosent.), in nessun luogo. Si scorge 
in c[uesta voce una storpiatura del nullibi , quasi nu-bi^li 
{n in d, §. 17); il che viene confermato da un' altra forma 
nullioi-ellu (Longobardi), la quale nella prima parte man- 
tiene meglio la originale nulhbi 6 



— 42 — 

Eri (Cosent.), jeri; forma più vicina ad Am, senza l'a- 
spirazione. 

Faccifaria^ in Appigliano, dissimulazione, adulazione. Si 
legge in L. Vetere (p. 29) questo verso: nun te lu dica 
pe jacctfarìa , cioè per. adulazione. Si ha poi quest' altro 
modo di dire : fare faccifarìa, che risponde alla espressio- 
ne rappresentare più parti in commedia, cioè infingersi, cam- 
biar linguaggio e carattere. La parola è composta da /Jzc- 
cra e ?ar/a == latino /anam, come in bifariam, trifariam, 
multifariam^ che letteralmente suonerebbe volta-faccia. 

Piscina, corba di vimini di grande dimensione, da cari- 
carvi per lo più frutta: lat. ^scma. 

Fishculu, cesto o istrumento di giunco nel quale riposta 
la pasta di olive macinate si preme nel torchio per trame 
l'olio: nel lat. harh. f scium y diminut. sincopato àìfiscus, 

Fragnaj marcia. I Latini diceano^races ofrages le ulive 
leggiermente frante per condirle, e perchè queste conser- 
vandosi per alcun tempo si ammolliscono e putrefanno, da 
fraces fecero 1' aggeìiivo fracidus (Vossio,^ v. frax). 

Frisali j nel Cosentino, diconsi, 1® i fiocchi pendenti da 
una veste consunta e lacera ; 2® gli avanzi de' pezzetti di 
carne di maiale dopo che ne sia tratto lo strutto, con altro 
nome scarqfuogli, ital. ciccioli; 3° le fette di pane tagliate 
per abbrustolarle e mangiarle condite con olio o altrimenti; 
4® le castagne tagliate in parti minute per darle in cibo ai 
maiali (Mar. Princip. , MaJvito). Si hanno inoltre, /m«to 
per piccola quantità (Lattaraco e altrove), frisuliare, ridur- 
re in piccoli pezzi, e per traslato, piovere minutamente; le 
alterazioni di quelle voci, frmgiuliy efringiuliare,fringiulusu 
per cencioso (Montalto, Cerisano, Mar. Princip.) ; fresa e 
f risella, cialdella tagliata di largo e fetta di ipaxie; fresa e 
fresinga, ferita, taglio; frisi, le strisce di argento o di oro, 
bianche o gialle, che indicano i diversi gradi e la dignità 
delsolcjato nell'esercito, con altro nome tagliar elle. La fonte 
di tutte queste parole Calabre ce la offrono i due antichis- 
simi verbi latini, ^rro = fero, comminuoj sminuzzare, stri- 
tolare, sfarinare, donde friabilis, frivola da Giovenale usato 
in senso assoluto di stracci, robe di poco prezzo; e frendeo^ 
frangere, consumare, donde ^re«sas e^resas. Aggiungo un 
ultimo vocabolo, ed hfrittuli, il anale, anche nel Cosen- 
tino , porta il doppio significato , ài fiocchi pendenti come 
frisali, e di avanzi più grossi della carne del maiale, che 
uniti alla cotenna tagliata in strisce e bolliti servono di lauto 
cibo alle famiglie. Frittulu inoltre si adopera per indicare 
un pezzo di carne qualsiasi: nu frittulu ai carne. Lo metto 
a confronto con frango affine a frio e f rendere, e afra- 
tillij che Pesto dice essere i fiocchi cenciosi de' tappeti a 
di un panno qualunque. 



— 43 — 

Frismra^ padella: yWarara. 

GanjUj ganjicieUu (CastroY.)i giaciglio, luogo di ricovero^ 
celletta meschina ed oscura. Leggesi in Du Cange : gangia 
occulta loca et subterranea, gangagia Graeci vocant^ e in 
Pesto presso Vossio (v. Ganeum) : ganeum antiqui locum 
abditum ac velut sub tetra dixerunt. 

Gliòmertij gomitolo : mantiene la intera forma di glomer. 

Greja (Castrov.)» moltitudine; gregne iphxr., le messi fal- 
ciate e raccolte : arex^ pregare. 

Grupu, buco; aonde il v. grupare, bucare: da s-crobis, 
con la caduta della 8 iniziale, acc. a 7oay« = scribo (v.%.20). 

Jy va — voce da vetturali per stimolare gli asini al corso, 
come r it. arri: è l' imperat. i del v. ire. 

Jacina^ giaciglio, luogo di ricovero per animali e anche 
per uomini : dal v. jacere. Da questo verbo è derivata pin 
re V altra parola seguente: 

Jazzu^ propriamente il luogo di ricovero delle pecore = 
^tazzu (v. questa v. p. 36). . 

Jena, (Castrov.), ciglione che segna il limite di un cam- 
po. H lat. gèna suona guancia, palpebra, ciglio: però sic- 
come supercilium ha il doppio significato di sopracciglio^ e 
per traslato, di qualunque cosa si elevi e sovrasti {super- 
cilium montis), e inoltre da ciglio gV Italiani fecero ciglio^ 
ne; è naturale che anche gena^ calabr.ye/ia, nel basso lat. 
sia stato trasferito ad indicare ciglione. In Castrov. istesso 
si dice : jire ciglia ciglia, cioè camminare lungo il terreno 
rilevato sopra una fossa scavata nel campo. 

Jenna, in Albidona, porta: Janua, e si adopera solamente 
quando va unita alla preposizione avanti, o espressa o sot- 
tmtesa: nta Jenna, menta Jenna, Jenna => ante Januam. 

JimmUj in Albidona, gobbo: gibber o gibbus (b m m, §. 16). 

JirCj andare: lat. ire, col J prost. (§. 20). Ne do qui le 
varie forme antiche rimaste nelle parlate calabresi: Jiva 
(ibam e ibat) , Jivi (ibas) , jioamu (ibamus) , jivati (ibatis) , 
jianu (ibant), Jivi {ivi e ivtt), jisti {isti p. ioisti), Jimmu (ivi- 
mus), jiste (istis p. ivisti8),jutu (itus, col suffisso utus, §. 30), 
Jissiy jisse (issem, es, et, p. ivissemj, ec. 

Jirttu eJiditUj dito: è una metatesi del digttus; donde 
pure jiditalCj che è 1' anello da cucire detto dagP Italiani 
aitale. 

Inta e intra , iinta e Jintra , sono V intus e V intra con 
la forma antica, in Castrovillari si dice : jinta mia, nel senso 
di in casa mia, espressione rispondente all' cvc^ov dei Greci 
antichi e all' «erw fxou dei moderni (Comparetti, Dial. Gr. ec.) 

Juarnu e jumu, giorno. Si legge in Eabretti (Gloss. it.): 
jurnus (diurnus) vox plebeja, de qua Maffejus. 

Jungére, giungere: conserva la pretta forma latina. Di 



— 44 — 

là il nome junta che è quella quantità di materia che si può 
<;ontenere nel vuoto delle mani unite a forma di coppa. 
Leggo in Du Gange (v. Tupina)^ unam junctam salis. 

LagarUy lasagne. La parola è greca, )La7ayov, che Esichio 
<5i dice essere ima sorta di focaccia composta di semola 
ed oUo; però il significato che ha in Calabria induce a cre- 
dere che qui sia stata introdotta dai Latini, presso i quali 
avea senso più largo, indicando persino la pasta sfogha in 
che si involgono le torte e i pasticci. 
* LangeUa^ vaso di creta particolarmente a uso di acqua: 
lagena fiasco, di che dovea esservi il diminutivo lagenula^ 
sincopato in langella; forma più lat. che gr. in >a7>jvo(r. 

Lavuri, diconsi in Calabria le biade seminate da che so- 
no in erba sino a che si mietono. Questo fatto ci riporta 
all' altro dell' antica Campania detta oggi Terra di Lavoro 
dai campi Laborini o Laboriae , i quali , secondo Plinio 
(3, 5, 9, ecc.) erano così chiamati dalla molta fatica che 
<50stavane la coltura. Per i popoli agricoli la coltura delle 
biade è il lavoro più importante dei campi: perciò in Ca- 
labria istessa la voce campagna suona campo in generale 
e campo seminato. Parimente nel basso lat. labor trovasi 
usato per campo lavorato: nella Legge Salica sta scritto: 
si quis in quemque laborem pecora immiserit (Du Gange). 

Lippa ^ SI dice della pellicola della castagna fra la polpa 
e la buccia, della buccia di un frutto amaro, o di un frutto 
immaturo , allorché nel mangiarne senza mondarlo, come 
è uso fare il contadino,* vi resta attaccata ai denti. Quindi 
Jruttu lippusu è detto per immaturo^ e per traslato all'uo- 
mo, lippusu vale importuno, che ti sta sempre ai fianchi. 
Si dice pure lippa, quella sostanza verde muscosa che si 
vede attaccata a una pietra o a un muro. dove batte l'acqua, 
o che si forma sulle acque stagnanti. Da lippa i verbi al- 
lippare e pigliare lippUj m senso di attecchire , attaccarsi, 
affezionarsi. La idea di tenacità che danno questi vocaboli 
ci rapporta al lippus, cisposo e tenace, e al suo verbo de- 
rivato lippio. 

Licernay ha il doppio significato di lucerna e di lucciola, 
come appunto àvealo nel basso lat. la voce cicindela. 

Lissìa, bucato: sincopato di lixivia. 

Lune p. lunedi. Nel basso lat. al nome dei giorni non 
si aggiungeva il dies, come nel lat. classico. Si rileva da 

Sueste parole di Du Gange: lunuspro dies lunae. Parimente 
Calabrese dice, marte, mìercuri, jove, veneri. Intorno a 
mìercurisi noti l' i lungo che fa ditt. con e (§. 23), lasciando 
la penultima sillaba breve, come nella rispondente parola 
latina. 
Manummersa, manrovescio: lat, manu inversa. 



— 45 — 

Meta, nel Castrovillarese, bica. La voce lat. meta ebbe 
eguale significato, derivando essa dal v. metere: in Colu- 
mella si le^ge, metafoeni; la quale poi per traslato passò 
ad indicare una pietra eretta per termine e il termine del 
Circo. Le prime corse, come le prime feste religiose e i 
sacrifici, eboero luogo nelle aje circondate da biche. Si legge 
poi in Du Gange : mete, acerous segetum . . vox Catoni no- 
ta, cap. 46. 

MiUta si dice solo in composizione: duemUlia, trimilUa, 
centumtllia (Aprigliano). 

Minare, spingere e battere. Nel lat. della decadenza mi- 
nari divenne minare^ ed era eguale apecus agere, ante se 
pellere^ increpare stimalo, come con vari esempi ha dimo- 
strato il Vossio (v. MinQr). La idea di battere va annessa 
a quella di stimolare col bastone o col pungolo gli animali 
a .camminare o a lavorare. 

Mo (avv.), ora: lat. mo-do; mo viegnu, ora vengo ; an- 
che ripetutamente, mo dice ca si e mo ca no ?= modo ait, 
modo negat, in Terenzio (Eun. 4. 4. 46). 

Mucare, mucatuj muffare, muffato: nel linguaggio Cala- 
bro ha conservata la forma lat. di muceo. Da mucatu si 
ebbe il derivato mucaturu^ che è il moccichino e il fazzo- 
letto in generale. Chi volesse trarlo dal frane, mouchoir, 
come sento dire, badi che i due suflSssi tura e oir non hanno 
alcun rapporto fra loro. 

Munjsielu , mucchio , ammasso di oggetti : monticulus e 
monticellusy voci del b. lat. , sincopate a modo popolare e 
col t cambiato in js (§. 17;. Da munzielu è derivato il v. 
ammunzelarey ammucchiare. 

'Nestra, prep., eccetto, fuorché: extra^ con la n iniziale 
enfatica, forse in-estra f== ii. infuori (§. 22.) — 'nestra di 
ilUiy tranne quello. Si ha pure avestra^ nello stesso senso, 
in Aprigliano (ab-extraf it. di fuori); ili Acri, in senso as- 
soluto e significa separatamente. 

^Nsemula^ nel Castrov. , insieme : il lat. offre simul e m- 
simul. Si dice anche ai maiali contendenti nel truogolo per 
acchetarli a bere insieme la stemperata della crusca. 

'Nsertare^ 'nsertu, innestare, innesto: lat. msertere freq. 
di insero e insertus. Diconsi castagne ^nserte i frutti del ca- 
stagno innestato, e quindi le grosse, saporite e facili a mon- 
darsi , per distinguerle da quelle del castagno selvaggio , 
che le chiamano curce. 

'NsurarCj prender moglie, nel vero senso di uxorem du- 
cere, e non si dice mai m senso di maritare. È verbo evi- 
dentemente derivato da uxotj come da mulier e àsijilius 
provenne agi' Italiani, ammogliare ^ figliare. Si aveva infatti 
nel b. lat. uxorare p. uxorem dare e anche nubere; uxo- 
ratuS} ammogliato = calabr. 'nsuratu. 



« 



— 46 — 

'Nterimmij nel Paolano e particolarmente 'nel contado di 
AmaxiteGi, frattanto : lat. interim col vocalismo paragogico 
deir t. 

'NtierUj nel Cosent. , a piacere, a libertà, qualunque co- 
sa : mangia 'ntieru , mangio qualunque cosa ; chi tt piace 
avire di sti cosarelle chi sunaai cà? — 'ntieru, il che si ri- 
solve : mi piace avere quella cosa che piace a te , qualun- 
que cosa, La lascio a libertà tua. I Latini diceano, integrum 
est mihi, che s' interpreta, la cosa è in mano mia, in mia 
libertà. 

*Ntura, antura, 'nturella in Albid. , poco fa : ante horam. 

Nustierjgi, ieri V altro : nudius tertius. 

Oje, goje in Castrov. , con la caduta del d mantiene me- 
glio la forma dell' hodie, che V it. oggi. 

PappUj è voce di che servonsi le nutrici per ispaventare 
i bambini (Amend.), nel significato di fantasma, di un es- 
sere misterioso, di un orco divoratore di bambini. Da/)a/>- 
M derivarono pappunu , papparutu . papparunu , e mutata 
a jo in e (%. 16), cuccarutu. È il Pappus, maschera delle 
antiche favole Atellane, come il Maceus (v. Mommu a p. 
32), nome manifestamente greco, 7ra7nro<r, dice 0. MuUer 
(Letter. Gr. V. II. p. 245), e che ricorda il nairrwrei'knT,09 o 
r antico duce dei Satiri nel dramma satirico. Dovea perciò 
avere una figura strana, bizzarra, selvaggia, com'era quella 
dei Satiri o delle maschere che li imitavano, ed essere quin- 
di causa di spavento ai fanciulli. Pappus significava pure 
vecchio j onde le altre v. Calabre, mpamparutUy mpappali- 
sciutu (§. 21)^ per stordito. Dalla simiglianza della canizie 
dei vecchi i Latini, imitando i Greci, dissero pappus la la- 
nugine del cardo e poi anche quella delle messi. Cfredo che 
per ulteriore traslato han dovuto estenderlo anche ai fioc- 
chi di ragno, chiamandosi questi in Calabria pappici. 

ParabularUy parabulanUjfrabularu, ceravularuj parolaio, 
ciarlone. Nel b. lat. parabola avea il significato di parola^ 
subentrata a verbum (Diez, 1. 49), e usata anche nel Tre- 
cento. Nella nota Canzone di Ciullo d' Alcamo si legge : 
Prezzo le tue parabole — E cotali parabole Non udì dire 
anch' eoj ec. — De. parabola = parola dunque si fece para- 
bolaru =xparolajo. Le altre forme sono alterazioni di quella. 

PartccniUj paio, coppia, e dicesi propriamente de* buoi 
aggiogati, i quali importa che sieno eguali di altezza e di 
forza. Siccome paio deriva dal lat. par, così paricchiu dal 
lat. popolare joartcwto = joar (Diez, 1, 37). 

Pastanu , vigneto giovine piantato di fresco. Pastanum 
in origine significava un istromento da piantare, ma in se- 
guito indicò un luogo atto a ricevere viti. Si legge in Ul- 
piano (Dig. 24. 3. 7), pastinum instituere per piantare una 
vigna. 



— 47 — 

Pinna^ in S. Giov. in Fiore, coperta ; in Fiumefreddo, 
la pasta assottigliata in falda e distesa sul tagliere per ri- 
duna in lasa^e o in altro uso. In ambo questi significati 
si scorge la idea di oggetto esteso. Di fatti, la coperta dai 
Latini fu detta stragulum da stemo , e dai Greci arpo^^. 
Pinna adunque per analogia deve avere una stessa origi- 
ne; e questa io la trovo in penna^ la quale, a giudizio dei 
recenti Filolo^ (Schleicher, p. 156-57), eTS,fet-na derivata 
da Trtt-avvviti, 10 apro, spando, allargo, e quindi volo, onde 
prae-pet-es, uccelli e veloci, dalle ali stese. 

Ptpitare, pipittare^ pipita ^ dicesi propriamente dei bam- 
bini quando si lamentano piangendo; si dice anche di qual- 
siasi persona allorché dovendo risentirsi di un' offesa avuta 
non profferisce parola : un si sente pipitare. Da questo ver- 
bo sincopato , e col mutamento del Mn e (§. 17) , derivò 
1' altro verbo picciare^ che vale lo stesso; e così dal nome 
pìpituy lamento querulo, cicaleccio, provenne piccia^ onde 
poi 1' aggett. picciusu nel senso di querulo importuno. Que- 
ste VOCI si rapportano evidentemente alle antichissime de- 
gli Osci, pipatioy pipulum, pipare e pipitarcj che Pesto in- 
terpretava, cum ejulatu conqueri ( Vossio, v. Pipulus). 

Pisare, pestare : lat. pisare e pisire. 

Pittirillu e piccirilluj piccolino: putillus, b. lat. pitillus 
(v. p. 13), del ciuale una seconda graduazione diminutiva 
dovea essere pitilillus, 

Praja, piaggia: conserva più regolare la forma lat. di 
plaga. 

Pree, in Longobucco, voce con cui il pastore mena a- 
vanti la sua gregge; in Bisignano e in altre parti della pro- 
vincia, vré e vrrè — È il prae lat., avanti — J prae, sequor 
(Terenzio), va avanti, ti seguo. 

Prudia, in Rogliano, tradimento : prodeo. 

Pugliu, molle, soffice, e per enfasi suole ripetersi — jpa- 
gliUj pugliu. Lo stesso significato si dà al lat. pullus, traen- 
dosi da puìvis , onde terra palla , quella che facilmente si 
risolve in polvere, friabile e quindi molle (Vossio, w.pullus). 
Si dice anche pùmice , pùmice, ed àpule^ àpule (v. questa 
voce). Da pallus forse pulluliare, che suona, nevicare leg- 
germente. 

Pulluoruy in Aprigliano, quantità di animali o insetti, ni- 
diata, ammasso di oggetti; pulluoru di surici ^ di musche, 
di corna. In uno dei Canti attribuiti a Duonnu Punta (§. 8.) 
si leggono questi versi: 

Nustierzi a cbillu niuru casularu 
Di surici vidietti nu pulluaruy 
Gei d' erad' unu e' avia lu mustazzu 
Chi paria la bon^arma di Pitazzu. 



/ 



— 48 — 

n latiao pulbis indica 1' animaluccio di fresco nato, e dagli 
scrittori di agricoltura usato anche i^er piantolina, it. pol- 
lone. Pulluoru adunque , col suffisso uoru = lat. ora ( uo 
p. o, §. 23) è il luogo dove stanno raccòlti gli animali o 
le piante, come tentorium, dormitorium^ ec. u luogo dove 
stanno raccolti i soldati, dove si dorme. Per la stessa ra- 
gione e dalla stessa fonte originata si ha V altra parola che 
segue : 

PulluvinUj il vivaio delle piante. Questo vocabolo non può 
essere che una stroppiatura sincopata di pullorum mvartum 
di Columella (pullunvtrium). 

Pupa, pupattulu, pupazmlu, bambola: pupae nello stesso 
senso, plur. di pupuSj pupa =ipuer^ puetla. Da pupa i Ca- 
labresi fecero il v. mpupare e fare ta pupa (Amendolara) 
per ubbriacarsi, fare la sbornia; traslato che suona, diven- 
tare bambino , perdere il senno , bamboleggiare. Anche i 
Greci da vvjTrtoo- fanciullo fecero wjTrtas&i e vflTrtaXsuw, bambo- 
leggiare. 

PurcKia, purchiarej nel Castrovillarese si adoperano nel 
doppio senso di germoglio, germogliare, e di parto, parto- 
rire, rapportandosi però alle troie e anche alle pecore. La 
V. lat. porca contiene appunto questo doppio significato di 
scrofa o troia e di terra alzata fra due solchi in un campo 
seminato perchè ne cuopra la semenza, la quale poi vi ger- 
moglia. 

Purtusu epertusu, pertugio, e il v. pertusare: \qX. pertusus. 
Rugare e arragare, trarre, trascmare: risponde al lat. 
trahere, col dileguo del t iniziale. La g media accenna allo 
indebolimento delP aspirata h, come nelP ital. traggo da tra- 
ho, traghiamo e traggiamo da trahimus, e nel pret. latino 
trac-si p. trah'Si. 

Ragù (Cassano), V affanno del moribondo, rantolo: raga^ 
lori nel b. lat. è interpretato da Du Cange, anhelitus homi- 
nis animam agentis; in relazione col gr. ^yoaxod raucedine. 
Rarne, dicesi in Calabria lo insieme degli utensili da cu- 
cina, formati per lo più di quel metallo. Diez, suU' autorità 
di Pesto e di altri autori posteriori, fra le parole popolari 
e arcaiche lat. nota aeramina ed aeramen nel senso di vr- 
tensilia ampliora. 

Ras tru, il fiuto del cane che si estende anche agli altri 
animali, pel quale si accorgono della belva vicina o passata 
vicino. È il lat. rostrum, che suona grugno, muso di qual- 
siasi bestia, avendo dovuto derivarne la idea dal fatto del 
cane il quale allorché va in cerca della lepre, di cibo, del 
padrone, allunga il ìnuso per assorbire V aria, e in quella 
aria sentire la prossima esistenza dell' oggetto ricercato (la 
causa o V istrumento per V effetto) : in alcune parti dicesi 
raspu, alterazione di rastru. 



— 49 — 

Rioiscere^ gerundio rivisciennu; rivivere : lat. revioiscen 

RàocciulUi cosa da poco, propriamente un avanzo di re 
ba sdruscita, cencio; in Cosenza e Rogliano, striscetta d 
cuoio per legare le scarpe o altro oggetto; ruozzulUi vasc 
di creta di poco valore : lat. recala dimin. di re«, cosetta, 
bazzecole. 

Sajima^ grasso, preso sostantivamente: nel lat. classico 
sagina^ cibo da ingrassare, nel b. lat. sagimerij adipe, grasso. 

Sapiu, savio; prov. sa chiù lu ciuotu in casa sua che lu 
sapiu in casa d^ antri. Sapius disparve dalla lingua latina, 
ma si conservò in nesapius^ stolto*. 

Sarcina^ propriam. un fascio di rami secchi da ardere: 
lat. sarcinay soma, fascio di oggetti* 

Shcandare, dicesi del pane al forno quando comincia a 
sollevarsi e prendere il primo colore delia cottura, e anche 
del pesce o di altro oggetto messo a friggere nella padella 
al primo scoppiettare che ne fa lo strutto o V olio, m qual- 
che luogo si ha pure shcandta, colpo di sole urente e shcanr 
drare il bruciarsi delle messi o delle piante per effetto del 
caldo urente. In lat. excandere ed excandescere, accendersi. 

Shcantue shcantruj moto subitaneo di paura percui il cuore 
pare che balzi e arresti i suoi palpiti: shcantatu è 1' uomo 
colpito da tale paura. In Lucano (6. 457) si legge, mens 
excantata per mente uscita fuori di se, e in un ìframmento 
di Plauto excantare cor per trarre fuori il cuore : dal v. 
excanto, traggo fuori per forza d' incantesimo. 

Shcarare, ricercare, scrutare: ex^uaero ed exquiro. 

Scilla e scidda, plur. scilli e sciddt, ala, ale: b. lat. asciUa 
e ascella metatesi di axilla, dim. di ala (Diez, I. p. i89). Si 
ha pure il verbo scillichiare nel Cosentino, sciddichiare in 
Castrovillari, per scuotere le ali. 

Scippare, cavar fuori, estrarre. Il v. excipere dai Latini 
fu adoperato anche in questo senso: si legge in Celso: tum 
dens 8t fieri potest, manu; si minus, forcipe excipiendus est. 
Di là la frase calabra : terrena fatta a scippa , che suona 
lavorato a forza di vanga e smosso profondamente. Altri 
potrebbe derivarlo dadiscerpere, onde Vìt.scerpare, estrarre. 

Scirpu, giunco: lat. scirpus. 

Scitare, svegliare dal sonno: il lat. excitare ha questo 
naturale significato, cui è solito aggiungersi somno. 

Scuitatu, spensierato, tranquillo (Cetstrov.). La ragione di 
questo vocabolo si trova nelle seguenti parole di Nannucci 
(Letterat. T. I. p. 74): « dal lat. cogitare, gli antichi for- 
marono il V. cottare, pensare, coitato o cuitato, cosa pen- 
sata , cioè pensiero , e coitoso pensieroso. Fra . Jacopone , 
V. 23, 3, disse cuitanza, dal lat, cogitantta dei bassi tempi.ir 
scuitatu porta la s prostet. negativa, come nelle parole ital. 
derivate dalle lat. in composiz. con ex. 7 



— 50 — 

Scuorpu^ ramoscello, fuscello: seapus e scopae, con la r 
epentica, come in alcune parole ital. derivate dal lat. (%. 21), 

Scurrirere^ dar la baia: scurrari, acc. a scurra, buffone. 

Serra e serrare, sega e segare: lat. serra, serrare. 

SìmitUj viottola, sentiero: semita. 

Siste f in Longobardi: con questa voce il pastore intima 
alla sua gregge di fermarsi, alcune volte ripetendola, siste, 
si. In altri luoghi si sente alterata in shtè, e si adopera an- 
che con gli asmi e muli. 

SijsiUj in Longobucco: è un'espressione d'ira e minac- 
cia di vendetta di sangue, quasi, ho sete di sangue. Sitire 
sanguinem è frase comune agli scrittori latini. 

Smammare j spoppare. Diez, citando S. Agostino, regi- 
stra la V. lat. volgare mammare p. lactare. In Calabria a- 
vanza solo il verbo opposto, smammare. 

Socra e socru, suocera e suocero : mantengono la forma 
integralmente latina socra e socrus. 

Spiertu, dicesi di chi smania per cosa che gli manca: 
vaju spiertu ppi dinari, sento forte bisogno di denari. Si 
dice anche di uno scioperato ridotto in miseria, di un pi- 
tocco, perchè manca di tutto: e poiché il pitocco va erran- 
do per le strade e pe' villaggi, senza averi e senza tetto, 
spiertu vale anche ramingo: jire spiertu, andare ramingo ; 
in alcuni luoghi miertu e dimiertu; in Malito , spercu e di- 
w,ercu ; in Marzi , spertu e dimertu — tutte storpiature del 
vocabolo spiertu, che è il lat. expertem. F. Limarzi ne ha 
fatto un felice traslato nella 1* terzina del Canto XI , del 
Paradiso di Dante (v. §. 8): 

Ahi Dzalanuta gente addunae pienzi, 
Guomu te nciotalisti alla mmuina 
E vai sperta e dimerta ccù li sienzì. 

Spingala, spilla. Nel b. lat. si ha spinla , spinala, spin- 
già c=: acicula, piccolo ago (Du Cange) ; le quali voci non 
sono che forme diminutive di spina. Un' altra forma è spi- 
nulicchia, succhiello. 

Spitif, spiedo: nel b. lat. spitum = vera (Du Cange). De- 
latre nel citato libro (Voc. Germ. netta Lingua it.) lo vede 
derivato dallo spiet teut. , spiess ted. ; ma rapporta al loro 
tema sp anche la v. lat. spina. Non so capire come l' illu- 
stre autore, fissando pure il tema comune alle due lingue 
antiche, senza alcun dato storico speciale, abbia dichiarato 
spitum di, origine germanica. La lingua lat. inoltre offre le 
altre v. antiche spina, spiculum, spiculo; e spiculum ha po- 
tuto risolversi neUo spiclum, spitìum, spitum, solo in forza 



— 51 — 

delle leggi foniche regolari, come pel mutamento deljo in e 
(§. 16) ha dovuto dare una seconda forma, skchttu, arma 
da punta (Rogliano, S. Pietro), quale è il significato pro- 
prio di spiculum. 

StramanUf fuori mano: extra manum. 

Strata^ via, strada: strata ne' b. tempi — per antiquam 
stratam Romam venit (Du Gange). 

Stroppa^ in Rogliano, il pollone che nasce nella ceppaia 
deU' albero, plur. struoppd; in Cassano struoppulUj lo am- 
masso confuso di stecchi, spine, polloni, erbe inutili che si 
tagUano dal campo per prepararlo alla coltura, il che viene 
indicato col v. stroppare. I Latini aveano stroppusy fascia, 
struppus legame, vmcolo: i primi vincoli o fasce furono le 
verrtiene, i polloni, i ramoscelli verdi. Nel Modenese dalla 
stessa origine è rimasto stroppello, che è V albero del sa- 
lice, e stroppi y stroppelli chiamansi i suoi rami e le sue lenti 
verghette che fanno ufficio di serti e legami nelle cose di 
agricoltura (Galvani, p. 354). Da stroppa j con la elisione 
della s iniziale (§. 20) è provenuta troppa, cespo, macchia, 
donde i v- 'ntroppare^ pullulare e 'ntroppicare =i= incespicare: 
jire ppi li troppi^ andare ramingo per la campagna, pei 
boschi. 

Suffraina, nel Cosentino, inguine: suffraqinem^ piegatu- 
ra, giuntura , per simiglianza applicata all' mguine , come 
appunto inguen negli alberi fu detto dai Latini quell' angolo 
che formano i rami nel punto dove si uniscono al tronco. 

Sugghia^ lesina del cuoiaio o del calzolaio: subula. 

Samare e susere, alzarsi. Corrono queste maniere di di- 
re: si mi sumano i kirie eleison, vale, se mi saltano i grilli; 
sùmati e susati, alzati; si é sumatu, si è susutu, si è alzato. 
D lat. sumoy secondo Pesto, adoperàvasi dagli antichi per 
follo j sollevare: susere poi essendo composta da sursum, 
è parola sorella di surgere. 

Suozzu, massiccio, fermo, intero: solidus, sincopato della 
sillaba media W, da cui l' it. sodo. È noto che la d seguita 
da vocale nelle parole latine passò in :g nelle rispettive for- 
me italiane: da medius, rudis e rudius, hordeum^prandeo 
eprandium si fecero, mezzo, rozzo, orzo, pranzo. La stessa 
legge si riconosce in solidus, del quale l' t medio ha dovuto 
trasportarsi dopo il d , e fare sodius , prima di diventare 
sozzu, suozzu. 

Surice, sorcio; mantiene la schietta forma lai. soricem. 
Questa istessa voce con un qualitativo misto di greco e di 
Calabro-latino, surice pantuocchiu (tutto occhi), indica il pi- 
pistrello, da L. Vetere nel suo libro di Poesie Calabre con- 
fuso con la zagarogna di Carpanzano, che invece è la ci- 
vetta. 



— 52 — 

SummiellUi biscottino di pasta dolce, dolciume. I Romani 
si servivano del sesamo per condire col senso dolce le vi- 
vande, senso gratissimo al loro palato: per traslato, si leg- 
ge in Petronio {Fragra. I.), et omnia aicta jfactaque auagi 
papavero et sesamo sparsa, il Calabro susumiellu quindi sa- 
reobe un cibo, una ciambella condita di sesamo, come dol" 
ciume in ital. per cosa dolce. 

Susu nel Cosentino, jsujm in Scigliano, M^^iu in S. Giov. 
Infiore , gelatina. È un derivato da sus , majale , come lo 
è sumeri. 

Suoare e samare, andare in caldo, pr. de' porci: subare. 

Tata^ padre; tata mia, tua, nuostru. Presso i Latini era 
voce in origine ristretta ai bambini ed alle balie, ma in se- 
guito fu estesa alla idea generale di padre nel linguaggio 
popolare, come si rileva da Marziale (I. 101). Si trova an- 
che in altri dialetti italiani. 

TijillUy pertica, propr. quella di cui si fa uso per pog- 
giarvi le tegole nei tetti: tijillum. 

TittllUj ascella: è detto così dal solletico che vi si fa toc- 
candolo leggiermente quando si vuole muovere il riso ad 
alcuno; fatto che i Latini esprimevano col v. titillo , solle- 
ticare, e i Calabresi dicono jsillicare, derivato dall' altro v. 
vellico. Si noti qui la labiale v mutata in ^. 

Trasere, entrare: transire, mutata V accentuaz. (§. 25). 

Tricare, tardare; donde in Rose e altrove trieu per uomo 
pigro. Vossio ci dice che trieae valeva impedimento, donde 
il V. in-tricare ed ex-tricare: T impedimento produce il ri- 
tardo. Diez (1. 22) registra trico, da un frammento di Lu- 
cilio, per debitore in ritardo. 

Trunzu, torso o piede del cavolo: truncus, in senso largo 
e con lo indebolimento del e in s e poi in ^. 

Truzzare, cozzare: trusare frequent. di trudere, usato da 
Catullo, ed anche oggi dai Lombardi trusà, urtare (Diez, 22). 
Di là un secondo frequentativo truzzuliare nel senso propr. 
di bussare, picchiare l'uscio della porta per farsi aprire. 

Uominu, nel sing., ed omti, p. uomo: sono forme che ri- 
flettono meglio le lat. hominem acc. (§. 27)' e homo. 

Ushcare, scottare, ed è proprio dei cibi e delle bevande 
acri. È Y ustulare lat. sincopato e col ^mutato in e (§. 17). 

Uti, avv., in quanto: uti a sta cosa non avimu chi dire; 
in quanto a ciò non è questione. In lat. ut e uti trovansi 
adoperati nello stesso significato. 

Varuj il passaggio che si apre in una siepe per entrare 
nel campo. In lat. si ha il v. varo, camminare con le gambe 
stese, ma da Tumebo, Isidoro e neUe Glosse di Filosseno 
interpretato anche per transire (Vossio , v. varus) , donde 
r it. var-^Oj val'ico: in alcuni luoghi vada, {d in r, %. 17). 



— 53 — 

Versura^ (Àlbidona), dicesi quel punto nel campo dove 
un solco finisce e ripiegandosi comincia.!' altro. La iden- 
tica parola vermra^ da vertOj e nello identico significato fu 
adoperata dai latini scrittori di (agricoltura. In Columella 
(E. 3.) si legge: cum ventum erat cui versaram^ che s' in- 
terpreta, giunto nel termine del solco. 

Vèrveru, nel Cosentino, cura, ambascia: ververiare^ agi- 
tare una massa di grano, di arena, di immondizie, per tro- 
varvi qualche cosa che si ricerca, e fig. agitare nella mente 
un pensiero tormentoso. Il latino ci offre vermina nel senso 
di dolori del corpo accompagnati da un certo moto dei vi- 
sceri, adoperato nella decadenza da Arnobio per eccitamento 
( vermina passionum ) ; verminatio che si legge in Seneca 
(Ep. 78) per afflÌ2ione^ tormento; verminare, per essere qf- 
Jlitto, tormentato. Si ricordi lo scambio delle labiali fra loro 
(§. 16). I Calabresi hanno pure le parole vivignu e viotelhi 
nel senso di pensiero. Sarebbero una stroppiatura di ververu? 

Veta, pi. veti (Casir.)^ bietola: beta e betis (6 in v, §. 13). 

Vettuj palo in generale, stanga: vectis fu adoperato anche 
in questo senso. 

Visciùottulaj trappola; lat. muscipula , da mus (m in 6, 
%. 16). Con questo scambio di suoni labiali nel Cosentino 
si dice pure viscij viscì, quando si chiama il gatto , certo 
in origine con la lusinga del topo (mus), altrove musei; onde 
anche il nome del gatto, visciuszu e visciusiza nel Coseur 
tino, e musciuy non solo in molti luoghi della Calabria, ma 
anche in altre parlate d' Italia. Nel Pataffio si legge : In 
pozzanghera cadde il muscia cheto , cioè , la gatta morta 
(Nannucci, Letter. ecc. I. p. 481). Con altro nome la trap- 
pola dicesi mastrillu , che sospetto di provenienza greca , 
trovandovi l'alterazione di /xv5, il suffisso rpo che indica istru- 
mento, e il suffisso diminut. lUtov, quasi fAU(rTpt).).tov. 

Vitta , nastro col quale le donne intrecciano e legano i 
capelli sul capo. Le trecce si dicono fatte a una o più vitte, 
secondo che il nastro vi s* intreccia una o più volte. La v. 
lat. vitta indicava appunto la fascia con la quale gli antichi 
legavano i capelli. Con altro nome è detto gagarellà, d'i- 
gnota origine , ma che si riscontra in scritture latine del 
sec. XIV: Item, prò ornandis caputiis Domini et dom. Hum- 
berti de villariis et zagarellis aureis et getae (Du Cange). 

Votajanju, grimaldello (nel Castrov.ì Si riconosce nella 
seconda parte della parola /ama il lai. janua; onde vota- 
j anju = volta-porta, che è P ufficio del grimaldello. 

Vre e vrre, voce dei pastori rispondente aljoreè (V. p. 47). 

Vrocca, forchetta. Brucchus diceasi dai Latini chi aveva 
i denti in fuori, e brocchi gli stessi denti sporgenti. Il pas- 
saggio da questa idea a quella dei denti della forchetta e 



— 54 — 

poi della forchetta istessa, è fatto naturalissimo. Per questa 
ragione vrocca (Cosent.) vale anche il cumulo sporgente 
di filo nel gomitolo, e vrocciu un nocchio nel fusto dell'al- 
bero, accanto al lat. bruscum. 

Vuda, alga: voce lat. popolare. Diez (I. 8) riporta queste 
parole di Servio : uloam dtcunt rem quam vulgus budam 
vocat. 

ZannUj buffone, commedia; plur. zanni ^ attori di com- 
media; fare lu zanna^ fare il buffone (Amendolara ; Albi- 
dona ec.) È voce che corre anche in altre parti d' Italia e 
da Davanzati (Tac. Perd. Eloq, e. 29) adoperata nello stesso 
senso dei Calabresi. La provenienza è dal lat. sannio, buf- 
fone, in Terenzio nome di servo sciocco; ne' secoli di de- 
cadenza diventato sanna, che i Filologi (Vossio, v. Sanna) 
fanno == «ràwas del comico Gratino e a pwaxos, voci che signi- 
ficano sabcco, buffone. Sorprende come Fanfani nel. suo vo- 
cabolario vegga lo zanni, che è pure un servo goffo della 
commedia de' Bergamaschi, un accorciato da Giovanni. In 
Calabria si ha un' altra parola Janna, nel senso di sciocco, 
che parmi lo stesso vocabolo zanna (; in ^, v. §. 18;. 

Zinna, taglio della scure, angolo sporgente di qualsiasi 
oggetto. I Germanofili la dicono voce = zinn-eieà,, punta, 
merlo d' una fortezza ( Delatre , p. 60 ) ; e fin qui la cosa 
correrebbe . Però il latino ci offre pinna o penna nello stesso 
significato di taglio, onde bi-pennis scure a due tagli, o in 
quello di qualunque oggetto acimiinato, percuijomnae le 
cime delle torri, i merU; e il Calabrese chiama jotnnaia (Ca- 
stro v.) il cozzo della scure o della marra , che in questo 
suole essere a punta, pinnularu e zinnularu il ciglio o lo 
orlo sporgente dell' occhio, zinnulu il socchiudersi dell' oc- 
chio per forza di sonno o quando si fa 1' occhiolino; la quale 
ultima idea si esprime col v. zinnare e zinniare. Potrebbe 
forse invocarsi quella influenza forestiera nello scambio del 
suono lab. p in z-, ina questo fatto si riscontra in altre parole 
Calabre; picca = zica, poco, fangu = zanca; scurpiune, lai. 
scorpionem r= scurzune , serpente ; botta =» zotta in Fiume- 
freddo, zottu in Cariati, colpo, caduta; vasciu, it. basso, for- 
se = zassu, tapino, villano, proveniente da vassus, servito- 
re, nelle Leg. Barb. (Diez, 1. 39), onde l' it. vassallo. Noto 
come aggiunta che nel lat. arcaico Zertenea si trova scritto 
per Vertennia (Fabretti, Gloss. ital.) 

Zirra, ^nzirra, ira, rabbia; ^nzirrare, adirarsi, irritarsi: lat. 
hirrio vale il ringhiare dei cani, segno di rabbia. Il suono 
iniziale z ha la ragione nell' aspirata A «= x, e si spiega con 
la legge fonica dehe aspirate, eli che si è discorso nel $. 18. 



55 



3. — Altre parole greche e latine (1) 



Abbabatu, ingarbugliato, confuso, stordito, in Castrov. , 
Altomonte, Cariati, Longobucco, ec. È un traslato di jSapaSai, 
balbettare , da cui derivarono le v. lat. babbius e babulus 
(Fabretti, v. Babbius)^ e poi V it. babbeo, 

Arripéj avv. (Castrovillari), da capo. In Vossio ( v. pe- 
dare ) si legge repedare per revertì , e la opinione di un 
Grammatico, non divisa però dall' autore, che repedare si- 
gnificasse a capite incipere. Il cai. arripè potrebbe esseme 
un derivato guasto dal tempo, oppure un alterazione dello 
altro avv. calabrese da peae e aa pere = da capo. 

Ashcu e ashcunuj pezzo di tavola staccata col cuneo da 
un fissile tronco di albero, steccone, palanca; ashca^ scheg- 
gia; ashca sùsula, pezzo di legno senza nocchi; piésulu, a- 
vanzo di ceppala che sporge sul terreno, quasi pedis assula, 
scheggia del piede delV albero. Il gr. agwv = lat. assis, con 
la trasposizione del x, darebbe «txwv, che manifesta la in- 
tera forma gr. di ashcu, ec. Il lat. assts, tavola, da cui il 
dim. assula, scheggia, dà la ragione dì pièsulu e del suo 
contrapposto sussula, che riflette, a quanto pare, il legno 
della parte superiore deU' albero con meno o senza tube- 
rosità. Diez (I. 6) e altri Filologi notano che la voce lat. 
assula ne' bassi tempi si fece astula, donde la provenzale 
ascia p. astia, come in quei tempi ancora sitla divenne si- 
eia. V olendo noi riconoscere nella cai. ashca la stessa tra- 
sformazione di assula, come avvenne nelP altra lingua ro- 
manza dei Provenzali, e' incontriamo a una forma più lon- 
tana della gr. «cntwv. 

Axjare, trovare: è un verbo molto comune in Calabria. 
Ascoli (Studi crii. p. 32) intorno a questa parola dà il se- 
guente avviso: <c ahhiari fcioè axjare) trovare, nap. asciai 
^^, ci conduce ad afflare lat. soffiare addosso, donde si può 
venire traslativamente a raggiungere colmato, toccare, tro- 
vare, ed afflare vai veramente rinvenire negli idiomi vala- 
chi. » Il fatto degP idiomi valachi parmi un indizio di molto 
peso. 

Babà, nel Castrovillarese, voce fanciullesca indicante una 
pustula, una cicatrice, un tumore qualsiasi. La rapporto al 
gr. poupwv, largamente inteso. 



(1) Iq questa terza parte del Catalogo si contengono alcune parole, del- 
le quali la provenienza apparisce dubbia se greca o latina, oppuramente 
oscura, ed altre aggiunte. 



— 56 — 

Cacchiare mente, guardare con attenzione, riflettere, ac* 
corgersi. Tra le voci basso-latine riportate da Diez e pas- 
sate alle lingue romanze vi è il v. cattare; dove sta scritto: 
cattuSj quod cattat o captata L e. videt: il mente sarebbe 
un complemento. Intorno al mutamento del doppio t in cat- 
tare ridotto a cacchiare , richiamo il caso dell' altro voca- 
bolo notato nel §. 17, ^mbracchiare = it. imbrattare, 'mbrac- 
chiù == imbratto. 

Calènnule ( lat. kalendae ) si dicono in Cellara i cinque 
giorni seguenti quello di S. Lucia , che è il 13 dicembre , 
e quali la credenza popolare vuole che indichmo ciascuno 
col tempo che manifesta quello che si avrà in ciascuno dei 
cinque mesi che seguiranno. 

Catreja, la spina dorsale con la corrispondente parte dei 
fianchi, centro della forza dell' uomo. E a questa idea di 
forza vi si accenna spesso, solendosi dire: avire na bona 
catreja, forza di catreja , che suona : avere vigoria , forza 
soda. Presso i Greci xpocrauf era la Forza personificata (da 
aeparo* forza), la quale si risolverebbe in x^aratà (con la meta- 
tesi del p) preso sostantivamente. A chi ben riflette, e te- 
nuto conto del suono cua p. ca (v. %. 23). parranno della 
medesima provenienza le altre parole Calabre, cuatraru (gio- 
vine), xaprepos; cuatroshcunu (giovinotto), xaprgpKr^o»; cuatra- 
shcola (giovinetta) : le quali voci alcuni le pronunziano con 
suono più stretto qua, quatraru, quatrashcunu, ec. 

Catusa, tubo di creta o di piombo per incanalare l'acqua. 
n primo membro deUa parola offre chiaro il gr. xarw, sotto: 
il secondo parmi sia il partic. femm. ou<ra che compie la 
idea di un oggetto che sta sotto, chiuso nel terreno o nel 
muro . 

Chiaria, gelo; chiatru, ghiaccio; chiatrare, gelarsi: forse 
da xouoo-, gelo, con 1' a epentico prolungato in xapuocr ? 

Cozza, cozzariellu, cuozzu, il vertice di un colle e il colle 
istesso: trasl. di xotta, secondo Esichio, capo (t in z, §. 17) ; 
jire cuozzi, andare ramingo per monti e burroni; applicato 
all' animo, andar male. Da xorm si fece cuozzicupa = capo 
vuoto, cioè teschio, cranio, che si adopera andie per in- 
dicare la Morte: 

Dicu cu Paulu: patu e im me cunfunnu, 
La CuwaAcupa uà me pò dare affaaau. 

(L. ViT. p. 40) 

Cùotula e cUcuotula, testa grossa, parola alterata poi in 
cicogna: da xottto, capo, o da xoure^ov, fronte, nel gr. bizan- 
tino (Du Gange). Cicogna si adopera anche per cervello, 



— 57"— 

mente: un prov. riguardante il contadino che spesso mo^ 
stra di saper pensare (Spezz. Gr., Celico), dice: e non im- 
porta ca sona la vrogna scorno .da porcajo), ca serti voti 
ne tene cicogna. 

Curdashca, pecora di parto tardivo. La prima parte della 
parola ci rapporta a chordus o cordws = serotinus , onde 
per la testimonianza di Varrone (2. R. R. 1), agni chordi 
sono gli agnelli che nascono oltre il tempo proprio. Non 
saprei affermare se la seconda parte riflettesse 1' altra v.. 
lat. antichissima, adasia = ovis vetula recentis partus (Fa- 
bretti, V. Adasia). 

CàserCy cucire. Nel lat. classico consuere^ in quello dei 
bassi tempi cusere: in un ms. del sec. ottavo si legge, ca- 
se ipsas pelles '{Cantùf St. degV Ital. v. I. App. I.j 

Dirràojitu (Aprigliano), grande rovina: dtraitum forma 
primit. di dirutum, da diruo rovinare. 

Feruschiulu e frushculu , selvaggio , intrattabile : dicesi 
dell' animale e delPuomo: da Jerusculus dim. dì ferus, 

Forchia , buca. Ci mena a un dimin. popolare perduto 
(foriculaeipoiforcla)^ dìforica, fogna. Da forchia si fece- 
cataforchia in composizione di xara gr. intensivo nel signi- 
ficato di grossa buca (v. Crozza^ p. 29), e il v. 'ncc^or- 
chiare y imbucare, in senso neutro. Si ha in un Canto po- 
polare : 

A su munnu sbrigugnatu 
U campare è 'na vrigogna, 
Miegliu è stare ^ncaforchiatu 
Cumu sta la zagarogna (civetta). 

Gajaru, gajariellu^ giovanetto. Sarebbe un guasto avan- 
zo della V. tirrena aVan/jrop, della quale parla Esichio? (Fa- 
bretti, in essa voce). Donnu Pantu invoca così la sua musa: 

Musa scigata mia, chi gajariellii 
Mai cuntegnusa fuosti de m' amare, 
Ricordatinne mo chi vecchiariellu 
Me vìju lu mustazzu Djanchiare, ec. 

Gavata, vaso di creta di grande dimensione, ad uso della 
cucina per lavare i piatti. I Romani ai tempi di Marziale 
aveano gabatae nello stesso senso: Trascurrant gabatae, 
volantque lances (L. VII. Ep. 47.); nerbassi tempi g^cw^to. 
I Greci della decadenza aveano pure 7aQac?'iv, '/«parov, plur. 
Vapara (Esichio, Vossio, Du Cangc). 

Graday spalle. Farmi che possa essere il lat. crateSj gra- 
ticcio, riferito da quegli anticni scrittori per traslato a qual- 

8 



— 58 — 

siasi oggetto che abbia una certa rassomiglianza col gra- 
ticcio. Virgilio disse, crates pectoris il tessuto del petto (Aen. 
12. 508), Tertulliano, crates gi^antum, gli scheletri de* gi- 
ganti. E per questa rassomiglianza che thorax fu adope- 
rato anche per torace, petto, e per corazza che è l'arma- 
tura del petto. In conferma di questo fatto sta l' altra voce 
cai. vrinchi = vimini^ per costole (Cerisano e villaggi cir- 
costanti, ec), donde abbrinchiatu per uomo o animale ema* 
ciato ^ cui traspaiano scarne le ossa e le costole; come da 
grada (Celico, ec.) si fece sgradatu nello stesso senso. In 
senso opposto poi vi è gradare, cioè governar bene di bia-^ 
da il cavallo o il mulo perchè gli si vestano di carne ed 
appianino le costole. 

Gr amina, precipizio, burrone : x/»3po<r (« per a pr. i Dori), 
vale lo stesso. 

JaseUy fiasco da vino. Diez vede l' it. fiasco nel Jlasca del 
b. lat., che fa provenire da vasculum; Delatre ;j). 45) lo 
riscontra nel tea. fiasche bottiglia. E perchè non rimontare 
al gr. adxoo- (fjel suono y, %. 20;, otre, nel quale i Greci usa- 
vano riporre il vino? 

Jèrtimu (Cosent. ) manipolo di biade: x</>Ti-fAO(r? da x«ip, 
mano. 

Lamare, lamatu, muffare, muffato: derivato di lannn e 
loaffij^ muffa. 

Lucia (Castrov.), guciu (Albid.^, lucisi (Corigliano, Apri- 
gliano, ec), fuoco. Si adopera solo per indicare il fuoco 
del focolare , del forno o di altro che serva agli usi della 
vita, servendosi poi della par ola ^mocm in fatto d'incendio, 
di danno avutone, e figiir. per sciagura : /acr^ miu! fucu! 
fiùciulu (Castrov.) è un'esclamazione di dolore per disgrazia 
avuta o temuta. Questo designare il fuoco piuttosto dalla 
sua luce che dal calore si riscontra nel gr. de' bassi tempi, 
il quale ha ).afA7rpov ^qv fuoco (Du Gange); tradizione che è 
venuta sino a noi, giacché nel romaico moderno fxuna suona 
lo stesso, e ne' dialetti greci di Calimera nel Leccese e di 
Bova nella Calabria Reggiana si chiama, lumera nel primo, 
lucisi nel secondo (Comparetti, DiaL Gr, in It. n. C. 44). 

Mara e amara, infelice: si usa solo nella esclamazione, 
maru e ammira mia, tia, illu, issu (Castrov. , Cosent.), cioè, 
infelice me, te, ec. La voce lat. amarus fu adoperata an- 
che in questo senso. Altri modi di esclamazione in Calabria 
e in senso astratto sono: tinta, cioè tinta a nero, a lutto; 
fiuocu (v. Lucise); sciuollu, dal v. sciollare, cadere in ro- 
vina; mala nova-, shbota (Rossano), dal volgersi contrario 
della fortuna: modi che o stanno da se, o sono accompa- 
gnati da mia, tua, ec. 

Masune, casetta da campagna; ammasunare propriamen- 



— 59 — 

te raccogliere nel masune i polli e le galline. Vi è chi ci 
vede la parola francese maison. Io ne contrappongo notrtru^^ 
vvo<r del gr. antico, che vale casa di legno, e ,ua?ov«tv del gr. 
di decadenza, che risponde ad a9poi?«iv, raccògliere in uno 
(Du Gange). C. Cosentino un secolo e mezzo dietro lo ado- 
perava per luogo di ricovero in generale (C. II. 97. XV, 43). 

MbronUj mbruonu, sciocco, stupido, fatuo; molto in uso 
nel Castrovillarese. È pretta la voce antichissima 6aro, 6a- 
ronem, brone-m che ha gli stessi significati, come dimostra 
il Porcellini con l'autorità di Cicerone, Lucilio, Plauto, Pei»sio, 
Petronio. Tertulliano dice: quid autem facient tot et tantae 
animae rupicum et baronum^ quibus alimenta sapientiae de- 
sunt? 1 Filologi non concordano nel vedere come baro nei 
b. tempi sia passato ad indicare un uomo forte ed un ti- 
tolo di dignità e di onore presso i Germani. Intorno alla 
m prost. si è discorso nel §. 21: a quegli esempi si aggiun- 
ga mbriga p. briga (C. Cosetit. VI, 50 — XX, 49), mfusa- 
glia = phaseoli. 

Mfusaglie e mpusaglie, nel Cosentino , fagioli , e anche 
legumi in generale: vi è la forma di ^a<rflXoi e lai. phaseoli 
con la m prostet. (§. 21j, che hanno lo stesso significato. 

'MpannUf avv. a galla, nel Cosentino: proverbio in Ro- 
se — mignu la paglia mmari e mi va ^nfunnu, minanu V an- 
tri lu chiummu e li va ^mpannu. In senso traslato si ado- 
pera anche per altri oggetti che occupino una superficie : 
t surici girano mpannu mpannu ppi la casa. Ne veggo il 
riscontro col modo avverbiale dei Greci ev tw ef*yavei , che 
vale, dinanzi agli occhi di tutti, 

Mpiedicu^ impedimento; lat. pedica^ pastoia, laccio, in- 
ganno (m prost. §. 21). 

Naca (Castrov.), cuna, Ne veggo la relazione con va/c, 
pelle coverta del suo vello, che è la cuna naturale dei bam- 
bini, e della quale spesso si fa uso nelle culle in luogo di 
toppone; oppure con naca == navigi species (Due), p. trasl. 

Nannora, subito, immediatamente (Albid.): parrebbe ri- 
solversi nel nunc-hora == nunc^ nunc , annettendo ad hora 
il senso deir avv. it. ora. 

Ncosta^ simulazione, in Cassano scoscanedda : fa ^ncosta 
di dormire , è lo stesso che finge di dormire. Non so in- 
travvederne la origine; ma nel gr. barb. trovo Xcerrà = clam 
(Du Gange). 

Ndu^lta, specie di salame : fosse il lat. edulia, cosa man- 
gereccia, con la n prost. come la v. antcced. ncosta? 

Picca, poco, piuttosto in senso diminutivo: riflette chia- 
ro la forma dorica fAt/xov p. ^wpov, da Teocrito adoperata 
avverbialmente in senso di poco. La f* e la jo sono suoni 
labiali e soliti a scambiarsi fra loro (§. 16). Valgono lo stesso 



— 60 — 

queste altre voci: ^/ea, zichini^ e per una seconda gradua- 
zione dimin. zichi'j3ichi , zichinieadra , in S. Pietro ; quali 
forse hanno relazione col lat. ctccum, ital. cica. Di là zi- 
cularìCy bazzecole. 

PittaszUy un poche tto, e si adopera anche per indicare 
annientamento: ti faccia nu pittazzu^ ti riduco al nulla, ti 
distruggo: nel b. lat. pictaciam e pittaciarrij pellicola e la 
particella di cuoio che si cuce nella ciabatta per raccon- 
ciarla. Vi è lo stesso traslato di cicurrij iì. cica, cai. zica 
(V. Picca). 

Poca, dunque, in conseguenza, ora.: poca chifacimu? 
poca è miegliu non ci pensare cchiù a sta cosa. Si adopera 
anche allura (it. allora) per poca, e può dirsi egualmente: 
allupa è miegliu non ci pensare cchiù ec. Lo rapporto allo 
avv. dorico 7ro/.à, ora^ allajine^ in significato più largo. 

Pullula, farfalla, nel Cosentino: dimin. dìpullusy in senso 
generale di qualsiasi animale di fresco nato. 

Raciuoppu e riciuoppUj il piccolo grappolo d' uva che ri- 
mane su la vite dopo la vendemmia: racemus [m e p la- 
biali, §. 16). 

BactUj in S. Giov. Infiore recata, sarnocchio, grosso spur- 
go: cfr. raucitas e p-paVXoGr, raucedine; V effetto p. la causa. 

Rituortu e lituortu {l in r, §. 19), chiamasi nel Cosen- 
tino un lungo pannolino col quale le donne calabresi si cuo- 
prono il capo, ripiegandolo dalla parte delle tempia e rivol- 
tando sul capo la parte anteriore, in modo che resti aperta 
la fronte. È la versione del gr. orpoytov = lat. strophium e 
■stroppus (da ^rpe^w, rivolgo, rivolto), che dai Latini fu ado- 
perato anche ^qy fascia del capo (Vossio, v. Strophium). 
In Albidona si chiama nendu, che ci pare il nectenaum sin- 
copato in nendumy oggetto da annodarsi al capo; in Castro- 
villari, supaghitu, parola composta da supra e ghitu =^jetta, 
la treccia dei capelli e i capelli istessi (y.jettay p. 32), og- 
getto o velo che copre i capelli. 

Rugagnu e urgagnu (Aprigliano), arnese, utensile: o|»7a- 
T^tov, forma dim. di opVavov (§. 28), che vale lo stesso: « Li 
urgagni sbilanzarud' a la via. »; verso di Donnu Pantu. 

RunciarCj russare; runctu, io russo: psVXw, donde ai La- 
tini roncho e ronchisso: il nome è runcigliu, russo, latino 
ronchusj col suffisso dimin. gr. i».tov, quasi po7XiX).tov (§. 28). 

Scafarla (Cassano, Montalto), conca; scafice (Montalto), 
fosso, conca, scodella: <ntay>? e il suo dim. entayicr, conca, tro- 
golo, tino, lat. scaphium. 

Scarcfognare (Cassano) , scalfire , raschiare : lat. seari-^ 

fico s=r gr. (rxajoiyfi) e (Txapiygua) (Esichio) , neUo stesso senso. 

Da questo verbo provennero le altre v. Calabre, scrufìgliuni 

( serobis ? ) i lombrici solcanti nello stabbio ( v. p. 36 ) ; 



— .61 — 

searqfuogliy nel Cosentino, che si adopera in senso di cic^ 
doli (v. FrisiiUy p. 42), di vennicciuoii e di arenole nuo- 
tanti nell' acqua. E un traslato preso dalla raschiatura del 
legname o di altro oggetto qualsiasi. 

Scifu, trogolo: gr. erxuyo<T = lat. scyphus. 

Shcutare (S. Marco), spogliare della corteccia un tenero 
ramo di albero: ffxurod, pelle, e in generale ciò che cuopre 
una cosa. 

StirillUj nel Cosentino, dicesi un piccolo cilindro di legno 
acuminato nelle teste, del quale fanno uso in un loro giuo- 
co i fanciulli = italiano lippa. Lo riscontro, variata solo la 
flessione dimin. , in (rrvpa/tov , punta di dardo e di asta, pic- 
colo bastone: in origine il giuoco forse faceasi con un dar- 
do: il che pare confermato dalP altro vocabolo usato nel 
Castro villarese spissingulu e spitizsingulu^ dimin. di spitum, 
arma con punta. In Albidona è detto zullaru (juXa-ptov?); in 
Cellara, tugliuolu e tugliu (tigillum); in Spezzano P. vuscia 
{buxumjìì legno donde è solito formarsi^ come è detto il 
palèo in Virgilio); in Cariati, trisculu {xpiT-^iifìcr o xw^ov, a tre 
piedi) , confuso certamente col tribisiellu di S. Giov. Inf., 
pezzo di legno tagliato da una parte in tre, anche in uso 
per giuoco di fanciulli; in Rogliano, squiglia; in S. Marco, 
criccliici. 

Strangùgliy specie di gnocchi; voce che è solito accompa- 
gnarsi con r altra proviti , cioè strangala-pr eviti. Si fanta- 
stica sul rapporto ai strangùgli e strangolare it. , ma è un 
bisticcio capriccioso popolare. A me pare che i gnocchi siansi 
detti strangùgli con vocabolo greco, dalla loro forma rotonda 
(crTpo77u).ot , rotondi) : r aggiunta di prèviti richiama la idea 
di cibo delicato (cenae Pontificum, dapes Saliar es). Que- 
sta tradizione pagana della ghiottornia sacerdotale in Ca- 
labria si riscontra pure in un' altra locuzione: pane di pre- 
vite y che vale pane buffetto scelto. 

Strudere e strujerey distruggere: lat. destruere, con l'in- 
tercalazione del j per togliere l' iato nella sillaba media ne, 
onde V Italiano fece struggere e distruggere^ rinforzando il 
J in g, come si è notato nel §. 12. 

Svertulare^ spalancare gli occhi volgendoli in alto: par- 
mi un' alterazione del vertere lat. , con la s prost. , come 
nel greco rpèircè e orpc^w. 

Tactij tàffiti, tànghiti^ in un momento, immediatamente: 
ditti sti parole tànghiti o tacti o tàjìti si ni jiu^ dette que- 
ste paròle se ne partì immediatamente. Paiono a primo a- 
spetto semplici suoni, ma io vi scorgo la pretta forma del 
gr. ToZicTTa, ridotto a TaXtra, TaXra, rapirà, per le duc aspi- 
rate X Q ff. 

Uoffuy nel Cosentino, femore, o la parte carnosa del fé- 




— 62 — 

more. Il lat. offa tra i suoi significati ha pure quello di co- 
sa in forma rotonda, di massa carnosa. In Giovenale {Sat 
16. 11.) sta per tumore originato da colpo. 

UoroicarCj uorbicare^ orvicare^ cuorvicare^ vuorvicare, ec, 
nel Cosentino e nel Rossanese, seppellire. Ridotte tutte que- 
ste forme al fondamento del vocaoolo mettono al lat. obruo^ 
S. metat. orbuo = orvuo. Parimente daU' inusitato exobruo, 
iseppellire , si ebbero le altre forme del verbo contrario, 
scurvtcare, survicare, scioroicarej ec. 

Urà, in Longobardi, per vedi. Sarei per credere che fos- 
se r imperat. gr. opa, se V altra forma uìu = uru, in S. Mar- 
co ollUf non m' inaucesse al sospetto che sieno storpiature 
di vedilo, ridotto a vello. 

Urta, pane, in Serra Pedace, e usato da pochi. La di- 
cono voce del parlare mascagnu, cioè furbesco o per ger- 
ghi, come dicono ancora V altra voce tiringu^ cacio (p. 37), 
benché questa di uso più esteso. Ora siccome in tiringu 
abbiamo scorto il greco rupod, cosi anche in urta sospetto 
r aoToo-, pane. 

Varrà, pertica, stanga: lat. varrà vale lo stesso (Por- 
cellini, V. Baro). 

Verminara^ tormento, cruccio, rabbia: v. le voci latine 
vermina, verminare, verminatio, in Vèrveru (p. 53). C. Co- 
sentino traducendo i due versi (Tasso, IV. I.) « E scorgen- 
doli omai lieti ec. » si espresse in questo modo: 

E vìdieonuli alliegri e buoni stare 
Sente gran verminara intra lu piettu. 

Vurgaj raccolta d' acqua, particolarmente quella fatta per 
mettervi dentro il lino perchè si macerasse. Vi ha U gur- 
ges lat. e V oi^m {Fopym), come derivato di opVaw, ribocco di 
acqua, donde opVao- ym terreno copioso di acqua. 

Variai in Rende, fame; ca-vtXria^ in Celico, col prefisso 
intensivo ear=xaTa (V. Crozza e Forchiay. gr. j3opà, lat. 
voro. In altri luoghi si dice caloja^ ealoma, che io credo 
storpiature di cavuria. 



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La Tipografia non offrendo completi i caratteri greci si 
é dovuto trascurare Vuso degli accenti e degli spirai. Per 
lo stesso motivo nel primo foglio occorsero de' er falsi , ai 
quali però si è potuto provvedere né^ fogli posteriori. Vi sup- 
plisca il lettore con la sua intelligenza. 

Da correggersi: p. 12, v. ult. raivulu in riavului'p. 37, 
Srumbulu in Strumbulu\ p. 55. n. oppuramente in o pari- 
mente. 



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